La modifica dei “decreti sicurezza”, i provvedimenti che sono stati il cavallo di battaglia di Salvini da ministro degli Interni, è uno dei punti più delicati della verifica programmatica che attende il governo in questo inizio d’anno. La materia è particolarmente ostica perché in precedenza si è riusciti a instillare in ampie fasce dell’opinione pubblica la convinzione che tali decreti – peraltro comprensivi di misure molto controverse anche in altri ambiti – siano riusciti a risolvere sostanzialmente il problema dell’immigrazione. Una convinzione costruita e diffusa sulla base di un presupposto altrettanto erroneo e cioè che il problema migratorio si identifichi con quello degli sbarchi. Peraltro, a onor di cronaca, un significativo calo del numero degli sbarchi era iniziato già nel 2017, ben prima dei decreti Salvini. Allora governava una maggioranza di centro-sinistra e al Viminale il ministro era Marco Minniti, criticato anche all’interno del suo schieramento proprio per alcune scelte di politica migratoria.
Adesso, comunque, i numeri degli sbarchi “ufficiali” sono estremamente ridotti. Ma a parte il fatto che rispetto al passato si stanno moltiplicando gli sbarchi clandestini (assai più insidiosi in termini di sicurezza e se ne parla molto poco), nel dibattito pubblico non si tiene quasi mai conto di un dato elementare: la gestione di processi epocali e planetari come quello delle migrazioni dipende solo in misura minima dalle scelte compiute “a valle” dai singoli governi. La portata dei flussi è invece direttamente proporzionale alle cause che spingono le persone a fuggire dai loro Paesi. Nello spiegare la relativa tregua degli ultimi due-tre anni, il fattore più decisivo è stato il progressivo affievolirsi dei due fenomeni – il boom dell’Isis e i contraccolpi delle “primavere arabe” – che nel periodo precedente avevano invece alimentato una spinta migratoria eccezionalmente intensa. Altro che chiusura dei porti, una misura che di fronte alla vastità dei processi in atto si potrebbe definire patetica se non avesse conseguenze drammatiche sulla vita di persone tra le più indifese del pianeta. E ora che la situazione internazionale, anche quella che più direttamente riguarda le aree a noi vicine, si è nuovamente infiammata, pensare che si possa gestire il futuro con piccole esibizioni muscolari di intransigenza è del tutto insensato.
Non sono gli sbarchi, la vera sfida dell’immigrazione. L’Italia non ha un problema di un numero eccessivo di ingressi. E’ all’undicesimo posto in Europa per presenza di immigrati e sta diventando sempre meno attrattiva, con conseguenze potenzialmente gravi sulla sua struttura produttiva e sui servizi di assistenza alla persona. Per non parlare della dimensione demografica. La vera sfida, anche nella prospettiva dell’ordine pubblico, è quella dell’integrazione. Ed è su questo piano, paradossalmente, che i “decreti sicurezza” stanno facendo più danni. Da un lato, infatti, hanno praticamente smantellato la parte più efficace del sistema di accoglienza e messo in crisi tutto il comparto. Dall’altro stanno determinando un sistematico incremento del numero degli irregolari soprattutto perché, essendo stata chiusa la possibilità dei permessi di protezione umanitaria, si moltiplicano coloro che si ritrovano privi di un titolo di soggiorno, “riclandestinizzati” e quindi esposti a ogni tipo di sfruttamento. Rimandarli a casa, ammesso che sia umanamente sostenibile (e non lo è nella stragrande maggioranza dei casi), non è materialmente possibile, com’era ben noto anche quando in campagna elettorale si sentiva dire che sarebbero stati rimpatriati 600 mila immigrati irregolari. I numeri del 2018 e del 2019 sono nell’ordine di poche migliaia. Ma nessuno ne parla più.