L’Italia da dieci giorni è diventata “zona rossa”: il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nell’impegno urgente di arginare la diffusione del coronavirus tra la popolazione, vieta spostamenti se non per comprovate necessità.
Il volume “La paura delle malattie. Psicoterapia Breve Strategica dell’Ipocondria” (Ponte alle Grazie 2020, Collana “Saggi di Terapia Breve”, pp. 331, 16,80 euro), scritto a quattro mani da Alessandro Bartoletti e Giorgio Nardone aiuta a capire e gestire il contagio della paura, affrontando un tema quanto mai attuale.
“Con le giuste strategie, è infatti possibile superare la paura delle malattie e convivere con l’idea della morte… pur non essendo ancora in grado di risuscitare”, di ciò sono convinti Bartoletti & Nardone.
Abbiamo intervistato Alessandro Bartoletti, psicologo e psicoterapeuta, che si è perfezionato in Neurobiologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Bartoletti, ricercatore associato e docente del Centro di Terapia Strategica di Arezzo, dirige l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Strategica di Roma.
Dottor Bartoletti, come affrontare l’attuale emergenza senza farsi prendere dal panico?
«In questo momento è necessario avere paura. La paura è un’emozione sana in un contesto di emergenza come quello che stiamo vivendo. Bisogna saper distinguere, però, tra paura e panico. La paura è un’emozione forte, intensa e molto realista, collegata alla percezione della realtà. Il panico, al contrario, è un comportamento definibile proprio sulla base del concetto di perdita del controllo: è la perdita del controllo dell’emozione della paura. Il panico porta a comportamenti non utili, non organizzati, non controllati, scelti sulla base dell’impeto del momento e quindi va nella direzione opposta di ciò di cui abbiamo bisogno ora, ovvero di comportamenti controllati in funzione dell’emergenza sanitaria. Cioè vale a dire, di seguire tutte le indicazioni che le autorità sanitarie ci stanno suggerendo, senza lasciarsi andare dal panico. I comportamenti panicanti invece sono gli accaparramenti compulsivi, le fughe (che sono anche reati), la violenza verbale, il lasciarsi andare alla frustrazione e allo sconforto».
Quale potrebbe essere un’informazione corretta contro il panico da coronavirus?
«Sulla base di quello che abbiamo appena detto è fondamentale rimanere collegati con l’autorevolezza della fonte. In questo momento dobbiamo fidarci della nostra organizzazione antropologica sociale, delle Istituzioni, dobbiamo fidarci l’uno dell’altro. Fidarsi dell’autorevolezza della fonte e non, come quando si ha paura delle malattie, andare a ricercare in modo anarchico e ansioso informazioni disorganizzate su “Dottor Google”. Non dare ascolto alle fake news sui social che stanno girando in questi giorni: lì si trovano solo informazioni distorte se non del tutto false. Sembra una raccomandazione ovvia, ma non lo è. Affidiamoci alle fonti autorevoli: la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Salute, la Protezione Civile e dal punto di vista informativo, affidiamoci alle fonti giornalistiche più autorevoli e credibili, come l’ANSA, dove le informazioni prima di passare sono controllate. Occorre distinguere tra fatti e opinionismo. I social invece, in questo particolare momento possono avere una funzione terapeutica, perché servono per sdrammatizzare, per tirare fuori tutta la vena ironica e geniale della razza umana anche in queste settimane difficili. Questo stravolgimento del nostro stile di vita lo dobbiamo trasformare in una opportunità, piuttosto che in una limitazione, abbiamo l’opportunità di riscoprire le relazioni familiari, di dedicare tempo alle persone che più amiamo, di dedicare tempo alla lettura, al gioco, alla cultura, al rallentare la nostra vita quotidiana. Correre è il male della nostra epoca industriale e capitalistica, correre dal punto di vista metaforico, porta a una serie di disturbi dello stress cronico, questa è una opportunità per rallentare».
Cosa voleva dimostrare Molière scrivendo la famosissima farsa “Il malato immaginario”, resa esilarante dall’omonimo film del 1979, regia di Tonino Cervi e protagonista Alberto Sordi?
«Molière nel 1673 scrisse una farsa ironica, che metteva alla berlina sia il medico di allora sia le persone che stavano in buona salute ma erano immotivatamente spaventate. Il medico di allora, Molière si diverte a tacciarlo di essere troppo attaccato al borsello e quindi di non avere competenze reali di aiuto ai malati, dileggiando allo stesso tempo le persone immotivatamente spaventate. Per la prima volta si iniziò a parlare di ipocondria nell’accezione moderna di una persona spaventata dalle proprie sensazioni e alla ricerca continua di un aiuto medico specialistico. Molière rese celebre l’ipocondria, ma con quell’aggettivo “immaginario” ne determinò anche lo stigma sociale che ci siamo portati fino al 2013, quando la psichiatria ha riconosciuto che nell’ipocondria non vi è nulla di inventato, perché la sofferenza della persona è autentica. L’ipocondria è stata finalmente “demedicalizzata”, poiché ora se ne riconosce il carattere di reale sofferenza psicologica».
La paura delle malattie crea grande sofferenza, fa vivere male, limita la sfera personale, familiare e lavorativa. Per quale motivo la medicina è stata a lungo negazionista nei confronti dell’ipocondria?
«Perché per certi versi era rimasta ancora ferma a Cartesio, ritenendo che solamente ciò che era fisico o facilmente misurabile aveva diritto di esistere nella scienza».
In che cosa consiste il principio terapeutico per superare l’ipocondria?
«Consiste nel recuperare il contatto diretto con il proprio corpo, questo non vuol dire sostituirsi ai medici o alla medicina. Se io ho un contatto sereno, percettivo con il mio corpo, con i miei sintomi e con le mie sensazioni, sono ancora più in grado di capire se e quando ho bisogno di farmi aiutare dalla scienza medica e quindi di rivolgermi a un medico».
Come si può prevenire l’ipocondria?
«Lavorando sull’educazione a sentire il proprio corpo e sull’educazione a sentire le proprie emozioni. Prevenire l’ipocondria vuol dire anche lavorare sul cercare di eliminare tutti quegli stili di vita che favoriscono lo stress. Lo stile di vita influenza le nostre sensazioni e il nostro benessere psico-fisico».
Ci fa un esempio di come si può riconoscere una sensazione che spaventa?
«Parliamo della sensazione cardiaca, che è una delle sensazioni che più spaventano se non si riconosce il funzionamento del proprio cuore. Bisogna insegnare alla persona a tenere una sorta di “diario del cuore”: per diverse settimane la persona fa un monitoraggio del suo cuore a mano, sull’arteria del polso, ogni ora al giorno. Ausculterà tattilmente il proprio cuore. Questo è un esempio di come gradualmente si ricostruisce un vero e proprio rapporto percettivo tra un individuo e il funzionamento di un suo organo. Questo tipo di lavoro, se portato avanti per qualche settimana, darà modo alla persona di sentire letteralmente il funzionamento del proprio cuore e a sentirlo in maniera amicale. Trasformando la percezione del cuore da nemica ad amica».