Le fiabe della città deserta: una mamma per Berta, la piccola oca

Siamo alla vigilia della “fase 2” e da domani, 4 maggio, il panorama probabilmente cambierà, anche se le città continueranno ad essere un po’ più silenziose del solito ancora per un po’. Continuiamo comunque con le nostre fiabe di animali in cui entra un po’ della realtà che stiamo vivendo. Un modo per guardarla con altri occhi, con un pizzico di speranza, di tenerezza e di meraviglia. Questa fiaba è liberamente ispirata a una storia vera. Ringraziamo di cuore le protagoniste Nadia, Berta e l’amica Michela Malvestita (Le foto sono © di Giovanni Diffidenti). Vi ricordiamo anche tutte le altre fiabe in cui abbiamo raccontato avventure di conigli, ibis sacri, agnelli, galli, cerbiatti.

C’era un vento forte che scompigliava le nuvole e faceva cantare l’erba, quella domenica pomeriggio, ma Nadia aveva deciso di fare comunque una piccola passeggiata fino alla riva del fiume: da casa sua erano circa centocinquanta metri, e in quel periodo era vietato andare più lontano. Non c’era nessuno sulla pista ciclabile che costeggiava il fiume, dove di solito in quella giornata festiva si incontravano tanti bambini e famiglie, perché quell’anno tutti avevano dovuto chiudersi in casa per colpa dell’epidemia e nessuno aveva potuto godersi la primavera.

Per fortuna, però, le sue amiche oche avevano fatto il nido proprio lì e lei era curiosa di vedere che cosa stava succedendo.

Le oche camminavano ondeggiando sui piedi palmati come se indossassero scarpe col tacco, con la coda che dondolava in modo buffo di qua e di là. Sembravano due signore un po’ rotondette, così Nadia le aveva chiamate Adelina e Guendalina, proprio come le oche che salvavano Romeo “er gatto del Colosseo” negli “Aristogatti”, il film preferito del suo nipotino Giorgio. Mentre si avvicinava, sentì che litigavano starnazzando forte.

“Che cos’hai fatto, Adelina?”

Guendalina guardava la sorella con aria aggressiva, dandole qualche beccata qua e là, ma senza farle troppo male, come se la stesse schiaffeggiando. Adelina se ne stava con la testa china, schivava i colpi di malavoglia.

“Volevo solo covare le mie uova. Pensi che l’abbia fatto apposta? Ma tu ce l’hai un cuore?”

Le due oche si allontanarono continuando a starnazzare finché arrivarono al fiume.

“Certo che è colpa tua – la incalzava Guendalina, che aveva un brutto carattere -. Non smetti mai di mangiare, te l’avevo detto che sei troppo grassa. Quest’anno non avremo neanche un pulcino!”

Anche Guendalina, a dire la verità, non aveva un aspetto patito e si capiva che era molto golosa: puntava tutt’intorno uno sguardo mobile e attento, e non appena vedeva qualcosa di commestibile si lanciava rapida in avanti con il becco. Ogni volta batteva sul tempo la povera Adelina, che continuava a tenere il capo chino anche mentre scivolava sull’acqua. Insieme raggiunsero un altro gruppo di oche un po’ più avanti.

Nadia era molto curiosa: quando ormai era sicura di non essere vista si avvicinò con cautela al nido per capire che cosa avesse causato il litigio tra Adelina e Guendalina, che di solito andavano d’amore e d’accordo.

I rami erano tutti scomposti, come se qualcuno li avesse calpestati. Dentro c’era solo un guscio rotto. “Oh!” esclamò Nadia, dispiaciuta.

Evidentemente l’oca Adelina non si era resa conto di essere troppo pesante per covare. Stava ancora osservando il nido, quando vide poco lontano una siepe di gelsomino, e si chinò per annusarla: i suoi fiori erano profumatissimi. Così si accorse che c’era qualcosa di bianco tra le foglie. Era un uovo. “Ma tu guarda, questo non si è rotto!” esclamò Nadia. Ci pensò un po’ su, incerta, poi decise di raccoglierlo. Lo fece con moltissima delicatezza: indossava i guanti e la mascherina per proteggersi dal contagio, ma in quel momento sembrava un dottore che si prende cura del suo paziente più caro e più fragile.

Nadia sollevando lo sguardo notò che le oche erano lontane, nuotavano in gruppo sul fiume. Starnazzavano ancora, ma le loro voci sembravano più calme. Allora le venne un’idea: e se lo avesse covato lei quell’uovo?

“Ma come si fa? Deve stare al caldo, e non puoi mica tenerlo in tasca” le disse la figlia Anna, che mentre lei passeggiava era rimasta a casa a studiare.

“Qualcosa mi inventerò” rispose Nadia.

Chiese aiuto a suo marito Paolo, che faceva il medico: lui sorrise, ma era abituato alle iniziative un po’ bizzarre di sua moglie, sapeva che amava molto gli animali, così la aiutò a costruire un nido in una cassetta, e a metterlo sotto una lampada per scaldarlo, creando una piccola incubatrice.

La famiglia in quel periodo, come tutte le altre, doveva stare in casa per la quarantena. Paolo ogni mattina doveva prepararsi e poi uscire per visitare i suoi pazienti. Anna seguiva online le lezioni dei suoi professori con il suo tablet. Nadia lavorava da casa, al computer. Tutti e tre però da quel giorno si accorsero che era cambiato qualcosa. L’atmosfera si era riempita di una speciale attesa: non vedevano l’ora che nascesse quel pulcino.

Aspettare a volte è un po’ snervante, capita per esempio quando un amico è in ritardo e ci costringe a stare impalati in un posto guardando continuamente l’orologio invece di correre a giocare. In quel caso, però, l’attesa era già bellissima: era come sentire un po’ di solletico nel cuore. Il sole al mattino sembrava più brillante e la sera , quando scendeva il buio, la luce rossa delle lampade restava accesa e scaldava il nido ma anche i loro cuori.

Un giorno Nadia stava riordinando la cucina dopo cena e sentì un rumore strano.

“Anna, sei stata tu?” chiese alla figlia.

“No – rispose lei, che si era spostata un momento nella stanza accanto – Perché, cos’hai sentito?”

“Un fruscio, come se avessi strappato un foglio di carta”.

Si scambiarono uno sguardo, perché entrambe avevano capito cosa stava per succedere, e poi si avvicinarono di corsa al nido: l’uovo stava tremando e traballando. Il guscio si ruppe e la piccola oca, appena nata, si mise a pigolare disperatamente.

Nadia era commossa e felice. Le tese la mano, con prudenza, e l’oca ci si accomodò dentro. “Ma guarda – osservò Anna ridendo – sembra che sappia già che cosa fare”.

“Hai ragione – disse Nadia, accarezzandola – La chiameremo Berta, l’oca esperta. Anche se è tanto piccola”.

Da quel giorno Berta incominciò a seguire Nadia dappertutto. Quando era seduta a tavola le si appoggiava su una spalla. Le si accoccolava accanto quando lavorava al computer, reclamava la sua dose di attenzione raggiungendola sul divano. Ogni giorno imparava qualcosa di nuovo, e già camminava ondeggiando sulle piccole zampe palmate come Guendalina e Adelina, che però da quel giorno non si erano più viste in riva al fiume.

Nadia pensò che poteva aspettare che crescesse un po’ prima di tornare al fiume a cercare le altre oche. Bisognava comunque aspettare la fine della quarantena. Intanto Berta era come un concentrato d’allegria e aveva preso possesso della casa: era lei – quel piccolo fagotto di piume morbide – che l’aveva adottata, come se fosse la sua mamma.

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Foto di © Giovanni Diffidenti