Ivo Lizzola: “L’università è esperienza di comunità. Deve aiutare a leggere e comprendere i cambiamenti”

A pochi giorni dall’inizio dell’agognata Fase 2, quando ci auguriamo di aver superato la fase critica dell’epidemia di coronavirus, il professor Ivo Lizzola invita a riflettere su come questo momento, per certi versi nuovo, debba essere considerato come l’inizio di uno spazio che sta oltre, piuttosto che come un tempo successivo, «un tratto di cammino – osserva -, di un percorso di miglioramento», alla luce del quale si può ri-leggere anche il ruolo dell’università.

L’università uscirà trasformata da questa situazione, ed è evidente da tutta una serie di elementi che l’hanno accompagnata in questi mesi e che, probabilmente, continueranno a caratterizzarla, con la grande sfida, però, secondo Lizzola, che questa trasformazione non sia vissuta come passiva ed ineluttabile conseguenza di questo tempo, quanto piuttosto come scelta attiva di una nuova affermazione identitaria. Il primo elemento, forse perché più evidente, è quello dell’insegnamento a distanza, dell’«incontrarsi, occhi negli occhi, docenti e discenti, attraverso lo schermo». Questa nuova forma di insegnamento, apparentemente efficace per supplire al necessario distanziamento sociale, secondo Lizzola rappresenta al tempo stesso, un’opportunità e una minaccia. L’opportunità offerta dalle nuove tecnologie è quella di colmare le distanze, di rendere possibile una forma di incontro che in altre epoche non sarebbe stata neppure immaginabile, ma anche quella di creare un luogo di «esercizio di verità, dentro il quale i docenti trovino il modo di manifestarsi dicendo qualcosa della realtà. Manca un confronto personale d’aula da cui partire, quindi in questi incontri virtuali si devono abbandonare le ragioni di controllo che rischiano di trasformare le scienze umane in saperi previsionali a favore di nuove forme di prossimità e umanità che siano attente alla diversità territoriale di cui ciascuno fa esperienza». Di contro, la minaccia intrinsecamente connessa alla tecnologizzazione dell’insegnamento a distanza è quella di «adottare una via tecnocratica, che progressivamente privatizzi i contenuti, assemblandoli in pezzi da acquistare, consumare e far scomparire, privando l’università del suo essere una comunità di vita e di esercizio di responsabilità civile e futura».

Oltre a ri-pensare l’università come occasione di costruzione di comunità, facilitato dalla tecnologia, invece che a questa asservito, la seconda grande sfida a cui il mondo accademico è chiamato a rispondere in questa fase di «inizio di un oltre» è quella del superamento delle distinzione tra discipline a favore «dell’apertura al dialogo, che chiama a rispondere alla sfida educativa della co-educazione, in cui la convivenza della ricerca tra generazioni, generi, culture abbia come meta quella di chiedersi il senso della carovana della vita e del sapere dentro di essa, fondato sulla logica del nessuno escluso». Se l’università è esperienza di comunità, il sapere che dentro di essa viene generato deve andare oltre i particolarismi, quali, secondo Lizzola, quelli generati dall’emergenza, orientandosi piuttosto verso un dialogo continuo su temi universali, finalizzati alla costruzione collettive di nuove storie. Inevitabilmente, la trasformazione dell’università da luogo di sapere frammentato e iperspecializzato a luogo di confronti inclusivi presuppone che l’università non si limiti ad essere luogo di sapere, ma diventi piuttosto un «riferimento nella vita, capace di entrare nella società quale strumento di lettura e comprensione della realtà, riscoprendo la vita stessa come un tirocinio. La sfida dell’università in questo inizio di un oltre è allora quella di divenire luogo di accompagnamento di passaggi importanti, attraverso cui, proprio nella distanza imposta – come quella di uno schermo – possiamo riscoprire l’umana alterità».