Scuola, vietato arrendersi: a caccia di speranza in un tempo sospeso

Avviliti e un po’ spaesati. Si sentono così i docenti delle scuole secondarie di secondo grado lombarde che, in questi ultimi giorni, hanno visto naufragare la possibilità di tornare fra i banchi assieme ai propri studenti. Il vago ottimismo natalizio, maturato durante le scorse settimane, è stato spazzato via dal Dpcm del 14 gennaio che, inesorabilmente, ha fatto affondare la speranza di poter fare lezione in presenza. Se nelle zone gialle e arancioni le scuole possono adottare infatti forme flessibili di organizzazione (in modo che almeno al 50% degli alunni sia garantita l’attività didattica “dal vivo”), non è così per quelle poste nelle aree rosse, in cui l’insegnamento, quindi, avverrà esclusivamente in modalità remota. Va da sé, dunque, come la grande sfida che il Covid delinea all’orizzonte non sia più soltanto la salute dei cittadini in generale, ma anche la formazione delle generazioni più giovani, che difficilmente può prescindere da un’istruzione vis à vis. La possibilità che la pandemia crei difficoltà non indifferenti agli adolescenti è uno scenario che, ogni giorno, si fa sempre più concreto nella mente degli insegnanti. Una preoccupazione che, da tempo, interroga anche Daniela Noris, da più di vent’anni docente di religione presso il liceo scientifico «Filippo Lussana» e, dal 2018, direttrice dell’Ufficio per la Pastorale Scolastica della Diocesi di Bergamo.

Come sta vivendo questa situazione? Come la stanno vivendo i suoi studenti?

«Da un punto di vista lavorativo, abbastanza bene. Ciò che mi sta mettendo a mio agio è la possibilità di possedere gli strumenti giusti per far fronte a questa situazione, ovvero un pc e una linea che funziona. Ho quel che mi permette di lavorare e di connettermi con i miei alunni. Senza queste condizioni, sarebbe complicato andare avanti. Ciò, ovviamente, vale anche per i ragazzi: in questo momento, un buon computer e una buona linea sono elementi decisivi. A livello personale, sono invece un po’ delusa. Trovo che la questione scuola sia stata gestita male e che la decisione di rendere zona rossa tutta la Lombardia sia stata deleteria, anche in relazione agli ultimi dati sui contagi. Sostengo fortemente la riapertura degli istituti scolastici, anche perché questa sorta di paralisi si sta facendo pesante. Il tempo è come sospeso e sembra passata un’eternità dallo scorso marzo. Abbiamo tutti voglia di normalità, in primis gli studenti che, ormai, hanno detto in ogni modo possibile come la priorità, per loro, sia ritornare fra i banchi di scuola. Proprio stamattina, mentre mi stavo recando al Lussana, sono passata davanti al Secco Suardo: alcuni ragazzi, da qualche giorno, hanno posizionato dei banchi fuori dell’edificio. Se ne stanno lì, al freddo e con il tablet in mano, a seguire la lezione e a testimoniare l’importanza della corporeità, della presenza in carne e ossa, che uno schermo non può e non potrà mai restituire. Si riscopre quanto sia fondamentale la fisicità e il suo ruolo nella crescita dell’essere umano. Io stessa uso il mio corpo per insegnare, non solo perché mi muovo ma perché il mio sguardo si posa e la mia voce, a seconda delle occasioni, viene modulata in modo differente. Certo, c’è anche da dire che un buon numero di studenti è favorevole a stare a casa. Alcuni di loro spiegano che hanno paura, che bisogna essere prudenti. Non comprendo, però, se queste ritrosie siano il frutto di timori autentici o se siano convinzioni stereotipate, frutto di discorsi sentiti alla tv o in famiglia. Quel che è sicuro è che quando si ritornerà in presenza si dovrà cercare di smontare la paura con argomentazioni oggettive e razionali».

C’era, secondo lei, una soluzione alternativa all’ennesima chiusura delle scuole? Si poteva agire altrimenti?

«Sì, si poteva agire in modo diverso e con largo anticipo. Si potevano aumentare i mezzi di trasporto o turnare i ragazzi, oppure garantire l’attività didattica al 50%. Nella peggiore delle ipotesi, si poteva concedere almeno ai ragazzi di prima superiore di seguire le lezioni in presenza. Un compromesso che avrebbe permesso agli studenti delle scuole medie di essere accompagnati in modo consono verso il nuovo mondo delle superiori, un passaggio spesso delicato».

Come affronta la frustrazione (e la malinconia) di non poter essere in classe con i suoi alunni?

«Alzarsi alla mattina, lavarsi, vestirsi, fare colazione, essere pronti e in forma per i miei alunni. Insomma, non lasciarsi andare, comportarsi nel modo più normale e consuetudinario possibile. Quando sono in difficoltà, cerco di ricordarmi certi momenti della mia vita in cui pensavo che non ce l’avrei fatta, quelli che poi, alla fine, ho superato. Mi dico: “Ce l’hai fatta allora, puoi farcela anche stavolta”. È un buon antidoto contro l’ansia».

La pandemia ha rafforzato la relazione fra docente e discente? La fiducia è cresciuta?

«Da un punto di vista umano, credo sia importante che docente e discente si fidino l’uno dell’altro. Non so dire, però, se questa fiducia sia aumentata. Quel che sicuramente è cresciuta è la responsabilità. Gli insegnanti, ora come non mai, sono chiamati a rizzare le antenne, a cercare di capire eventuali segnali di disagio o fragilità. Gli studenti, da parte loro, devono dimostrare di essere responsabili, sforzandosi di rimanere attenti, concentrati, di impegnarsi nonostante le difficoltà di questo periodo e i limiti della tecnologia. Dal punto di vista della valutazione, inoltre, un docente deve saper comprendere come vengano a mancare determinate condizioni affinché un compito possa essere giudicato come se si fosse in presenza».

Come incoraggia i suoi studenti?

«Ogni mattina, appena mi connetto, chiedo loro come stanno. Prima di affrontare il programma della giornata, chiacchieriamo qualche minuto e ricordo loro che questo periodo passerà, che avrà una fine. Per i ragazzi, del resto, è importante recuperare quel contesto informale, se così si può dire, proprio di una lezione in presenza. È palese, infatti, come una lezione dietro lo schermo non possa che risultare rigida, verticale e, in un certo senso, annichilente. I docenti devono fare tutto il possibile per mantenere vivo il ruolo dello studente».

Se le scuole non riapriranno a breve, quale sarà il prezzo da pagare?

«Chi lo può immaginare? Non lo possiamo sapere ora e, anche quando si ritornerà in presenza, i tempi, per monitorare i ragazzi e scovare gli eventuali danni arrecati, saranno lunghi. Mi piace anche pensare, però, ai possibili benefici che questa pandemia potrebbe arrecare alla nostra società. Spero porterà maggior consapevolezza, coscienza di ciò che più conta nella vita e una migliore gestione del tempo. E mi auguro che incominceremo a rallentare il ritmo delle nostre giornate, a distanziarci dalla frenesia a cui siamo abituati e ad affrancarci da una cultura in cui ogni cosa deve essere, sempre e comunque, a disposizione. Il compito dei docenti, nella scuola del dopo Covid, sarà quello ricondurre le paure alla sfera della razionalità e di educare i ragazzi alla lentezza, insegnando loro che pure scienza e conoscenza prevedono dei passaggi graduali, non istantanei e non preconfezionati».

Cosa teme di più? Cosa le fa più paura?

«La vita di un adulto è temprata dalle esperienze passate, la sua capacità di rispondere alle difficoltà presenti è data dalle sfide che ha dovuto affrontare precedentemente. Un adolescente non ha ancora questa eredità, questa forza caratteriale. Senza strumenti adeguati, un periodo come quello che stiamo vivendo può essere spiazzante per un ragazzo. Proprio per questo gli studenti hanno bisogno degli adulti, della famiglia e della scuola. Ho paura che, senza la presenza concreta della scuola e dei suoi docenti, certe fragilità, insite nei più giovani, possano emergere prepotentemente. La scuola, del resto, è socialità, un luogo dove nascono legami e amicizie, dove ci si identifica o ci si scopre diversi. Infine, non vorrei che, a fronte di una chiusura scolastica prolungata, i ragazzi si sentissero messi da parte e che in loro incominciasse a serpeggiare un certo risentimento nei confronti delle istituzioni. Non vorrei che qualcuno abbandonasse prematuramente gli studi».

In un periodo drammatico come quello che stiamo vivendo, è possibile trovare un senso religioso?

«La carenza di senso nasce quando si dà tutto per scontato, quando i ritmi della vita sono quelli abitudinari della nostra routine. Quando le cose si fanno più lente e dolorose, si coglie la fragilità e la limitatezza dell’essere umano e si ritorna al senso originario dell’esistenza, al senso dello stare assieme, della condivisione, dell’unità. Certo, quando la paura si diffonde, egoismo e individualismo sono dietro l’angolo. Ma credo che la differenza fra le persone che vivono solo per il proprio tornaconto e coloro che sperimentano la dimensione della solidarietà sia evidente. Il male, forse, fa più rumore, ma il bene è più eloquente. Per questo, non dobbiamo smettere di sperare».