Massimo Tosti, il carabiniere che salvò 400 ebrei: “Difese i valori in cui credeva a rischio della vita”

Quella del Capitano Tosti (Campobasso, 13 febbraio 1901 – Milano, 13 marzo 1976), autentico salvatore della patria, morto a 76 anni con i gradi di colonnello dei carabinieri e senza mai raccontare nulla in famiglia delle vicende belliche, è la storia di un uomo in divisa e di altri uomini come lui, che nonostante le leggi razziali e i diktat nazisti difesero gli ebrei nel Sud della Francia occupata dalle truppe italiane. 

La nuova pubblicazione del giornalista e saggista Giuseppe Altamore è un libro da leggere in occasione della Giornata della Memoria. Stiamo parlando del volume “A testa alta” (Edizioni San Paolo 2020, pp. 144, 18,00 euro), nel quale l’autore rievoca la figura di “Massimo Tosti, il carabiniere che salvò 400 ebrei”, come recita il sottotitolo del testo. Una storia eroica di coraggio e ardimento che rivive nelle pagine di Giuseppe Altamore, appassionato di storia e teologia, da qualche anno impegnato nel dialogo ebraico-cristiano, direttore responsabile del mensile BenEssere, la salute con l’anima del Gruppo Editoriale San Paolo, da noi intervistato.

“È bene quindi dare merito a questa schiera di uomini e donne che, essendo nel Nord del Paese in particolari situazioni familiari, si comportarono come il Capitano Tosti. A loro l’onore delle armi e la riconoscenza di tutti coloro che furono salvati da morte certa”, scrive nella Prefazione del libro il Generale di Corpo d’Armata Roberto Jucci, ex Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri.

Per quale motivo, spesso storie simili a quella del capitano coraggioso vengono come risucchiate dalla memoria, anzi, come nel caso di Tosti, dimenticata nel fondo di un polveroso baule?

«Purtroppo, il tempo passa e i testimoni diretti di quell’epoca scompaiono. Oggi ci sono gli ultimi novantenni che possono raccontare in presa diretta quello che è accaduto. Sempre di più quindi occorre consultare gli archivi e i documenti, quando si trovano. Nel mio caso ho avuto la fortuna di accedere alle carte fornite dalla famiglia e che erano state custodite gelosamente. Ma questi infiniti fogli di carta spesso risultano oscuri, bisogna fare tanti collegamenti e svolgere ulteriori ricerche per contestualizzare dichiarazioni e semplici certificati dell’epoca. Credo che molte famiglie conservino dei veri tesori della memoria che andrebbero resi pubblici».

La vicenda si dipana in gran parte nella Francia occupata dall’esercito italiano e dalle truppe tedesche tra il novembre 1942 e il settembre 1943. Undici mesi nodali, dove i nostri soldati “si erano trasformati in inaspettati salvatori, pronti perfino a impugnare le armi per difendere gli ebrei dalle pretese della Gestapo e della Repubblica fascista di Vichy”. Ce ne vuole parlare?

«L’8 novembre 1942 gli anglo-americani sbarcarono in Nord Africa, mentre in Libia l’Italia indietreggiava. Come conseguenza, in meno di ventiquattr’ore tutta la zona libera francese passò sotto il controllo delle forze tedesche e italiane per prevenire uno sbarco alleato sulle coste del Mediterraneo. Al Governo di Vichy rimase formalmente l’amministrazione statale. La IV Armata italiana, comandata dal generale Mario Vercellino, prese allora il controllo di un vasto territorio, che andava da Tolone, in Francia, a punta Mesco, nel comune spezzino di Monterosso. La Francia passò interamente sotto il comando tedesco, mentre la Provenza e la Costa Azzurra, per l’appunto, furono occupate dalla IV Armata, forte di 30mila uomini. Gli ebrei furono concentrati in alcune località a ridosso delle Alpi e furono sempre difesi dagli italiani fino all’8 settembre 1943. Il Capitano Tosti fu determinante in questo senso». 

È vero che a guerra finita, il Capitano Tosti, dovette dimostrare al ministro della Difesa la sua fede antifascista, anzi di non essere stato un volenteroso collaboratore della sedicente Repubblica sociale italiana? 

«Purtroppo, dopo l’8 settembre il Capitano dovette presentarsi al suo comando, perché la sua famiglia era in una situazione di estremo pericolo con la moglie prossima al parto. Se si fosse dato alla macchia, avrebbe lasciato la moglie e il figlio Giancarlo di pochi anni in balia degli eventi. Giocoforza dovette formalmente dire sì alla Repubblica sociale italiana, ma in segreto continuò ad aiutare gli ebrei e la resistenza, rischiando la propria vita, perché a un certo punto fu scoperto. Il Capitano si diede allora malato per non coinvolgere la famiglia. A fine guerra, dovette dimostrare di non essere stato un collaboratore del regime fascista. Nel libro racconto come ciò avvenne». 

A metà degli Anni Cinquanta la strada di Massimo Tosti si incrociò con quella di un altro carabiniere di circa vent’anni più giovane, che sarebbe stato un suo sottoposto per un certo tempo. Quale era il nome di questo carabiniere?

«Sì, il giovane carabiniere di allora divenne poi il famoso generale Dalla Chiesa. È straordinario questo accostamento del destino di due uomini che hanno dato tanto al nostro Paese, mi viene da dire alla Patria. Uomini tutti di un pezzo, con un’integrità morale non comune, che hanno attraversato i momenti più difficili della storia mostrando che cosa possono fare le persone che davvero si dedicano agli altri». 

Che cosa può insegnare alle giovani generazioni la storia di un “carabiniere integerrimo” come Massimo Tosti?

«Massimo Tosti era in fondo una persona semplice, ed è rimasto fedele al suo giuramento. I regimi passano, i valori restano. Occorre sempre essere coerenti e non lasciarsi travolgere dalle idee degli altri o dal tornaconto personale. In fondo, il Capitano Tosti era una persona ordinata, era legato alla famiglia e all’amicizia. In un mondo che si sgretolava, tutto ciò è stato un rifugio sicuro che né il fascismo o le violenze della guerra hanno potuto scalfire». 

Il 17 gennaio 2021 si è tenuta la XXXII Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Quanto è importante mantenere viva la fiammella del dialogo, soprattutto in un momento difficile come questo, nel quale, come ha detto Papa Francesco, stiamo remando nella stessa barca che affronta questa tempesta? 

«A 75 anni dall’orrore di Auschwitz, i negazionisti in Italia crescono come funghi: in circa 15 anni chi non crede alla Shoah è passato dal 2,7 al 15,6 per cento e un 16 per cento che addirittura afferma che la persecuzione sistematica degli ebrei “non ha fatto così tanti morti”. Sembrano percentuali asettiche, ma parliamo di milioni di italiani. Numeri agghiaccianti, che emergono da una recente ricerca dell’Eurispes sulla diffusione e le caratteristiche dell’antisemitismo. Tutto ciò non è che la punta dell’iceberg di un fenomeno molto diffuso che infetta il mondo intero e crea profondo sconcerto in chi credeva che dopo Auschwitz l’antisemitismo non avrebbe più potuto avere un seguito. Purtroppo, non è così. L’antisemitismo è un frutto avvelenato generato da secoli di violento antigiudaismo di natura religiosa generato dall’insegnamento del disprezzo, dalla teologia della sostituzione e dall’accusa di deicidio. Si tratta di concetti e sentimenti che hanno scavato profondamente nelle coscienze di migliaia di cristiani per centinaia di anni. Il dialogo ebraico-cristiano può essere quindi un vero antidoto all’antisemitismo mai sconfitto alla sua radice».