Diario del Ramadan: una nuova routine. I primi giorni sono i più duri

Proponiamo anche quest’anno una rubrica per raccontare il Ramadan e capire meglio e più da vicino che cosa accade in questo periodo nelle comunità musulmane che vivono tra di noi. L’iniziativa nasce in collaborazione con l’Ufficio diocesano per il dialogo interreligioso di Bergamo: un approfondimento culturale a sostegno della conoscenza reciproca e del dialogo. Protagonista di questo “diario” è una giovane studentessa universitaria che vive e lavora nella nostra provincia. Qui racconta una giornata di Ramadan.

Oggi è il primo giorno di Ramadan.
Sono le cinque del pomeriggio tra poco più di tre ore potrò bere quel bicchiere d’acqua che bramo fin dal mattino. È una giornata particolarmente calda e nella mia piccola stanza dello studentato non esiste l’aria condizionata. Così mi son svegliata accaldata, con la gola secca e con il sole che ormai aveva dispiegato i suoi raggi su tutta la città. D’istinto stavo quasi per maledirlo quel sole ma una lucina nel cervello iniziò a lampeggiare in segno di allerta salvandomi dal rompere il mio digiuno ancora prima che la giornata cominciasse. Perché nel mese di Ramadan non bisogna solo privarsi di acqua e cibo ma di tutte le cattive abitudini come anche le parolacce. Sapevo già che sarebbe stato difficile quel giorno ma questo voleva dire un thawab (una ricompensa) maggiore. I primi giorni sono sempre i più tosti comunque. Per abituarsi e abituare il proprio corpo a una nuova routine d’altronde serve del tempo. Di solito, come ho fatto oggi, cerco di tenermi occupata con le solite attività lavoro, studio e se ho bisogno di un po’ di svago leggo qualche libro o guardo qualche film. Fuori non si può fare molto a causa del Covid ma anche se non fosse, se uscissi non potrei comunque fermarmi in qualche bar per rinfrescarmi. Qui nello studentato sono fortunata perché alcune ragazze che abitano con me digiunano e posso condividere questi momenti con loro. Durante questo mese noi musulmani solitamente cerchiamo di stare in compagnia, condividendo l’iftar (il pasto per rompere il digiuno) e accrescendo così il senso di comunità. Questo, infatti è un aspetto fondamentale nell’Islam in generale. Ovviamente vivere in un paese dove la comunità islamica è una minoranza riduce anche la possibilità di creare quel senso di comunità soprattutto se all’interno della comunità stessa ci sono differenze causate dalla provenienza geografica (una comunità di arabi e una comunità di senegalesi possono avere sì in comune la religione ma hanno comunque culture diverse). Una volta mi capitò di essere in Libano durante il mese di Ramadan e vi assicuro che essere circondata da persone che come me digiunano e invitano nelle loro case per l’iftar e che ne parlano come routine, perché lì lo è per tutti, mi fece capire cosa fosse quel senso di mancanza che sentivo quando digiunavo in Italia. Lì in Libano persino i vicini cristiani rispettavano questo momento dell’anno e spesso capitava che ci invitassero a rompere il digiuno da loro per poter condividere con noi un momento così importante. Per fortuna qui nello studentato ho conosciuto alcuni ragazzi con cui condividere l’iftar e creare questo senso di comunità, almeno nel nostro piccolo. E a proposito di iftar… è giunto il momento di cominciare a prepararlo!
Noha Tofeile

  1. cara Noha, considera questo mio scritto, come un gesto di tenera gentilezza e vorrei esprimere che molti di noi, non riescono a concepire il vostro modo di “digiunare”, perché viviamo in un mondo opulento e pieno di atti egoistici, che annullano ogni volontà nell’esprimere anche un gesto di gentilezza, segno di fratellanza e amore! In questi giorni, ho avuto modo di sperimentare che la gentilezza, paga, con altrettanta gentilezza; ma questo dono, non è da tutti! ma non è da tutti, perché non è imposta e viceversa sgorga dal cuore che porta in sé una grande pace! La signora con cui l’ho sperimentata, ho scoperto, ieri sera, che è musulmana e, che quindi sta percorrendo il Ramadan da persona ligia alle regole che il “digiuno” richiede! Penso però che la signora in questione, è gentile a prescindere, e che le sofferenze che l’ha portata a venire in Italia, abbia reso il suo “animo” grato per l’accoglienza che ha ricevuto, forse non del tutto in modo unanime, ma comunque degno di dare a sua volta un sorriso ed un segno di gentilezza nei confronti di coloro che incontra sulla sua strada! Buon proseguimento di vita, un abbraccio! silvana

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