Insegnanti senza formazione e senza carriera. Ai margini del decreto Pnrr 2

Dopo avere, da parte di tutti i partiti e sindacati e di molti Ministri dell’Istruzione, discusso, rinviato e cincischiato per anni sui temi della formazione, reclutamento, carriera degli insegnanti, sono arrivati gli ultimatum europei, sulle ali del PNRR: o fate vedere il cammello – cioè le riforme – o  niente soldi! Ecco, dunque, il Decreto legge del 30 aprile 2022, n. 36, pubblicato in Gazzetta ufficiale come Decreto PNRR 2, che, agli articoli 44-47, introduce la riforma della formazione iniziale, del reclutamento dei docenti e della formazione continua.

Per essere assunti in ruolo servono, dopo la laurea: a) un percorso universitario e accademico abilitante di formazione iniziale con 60 crediti formativi universitari o accademici; b) il superamento di un concorso pubblico nazionale, indetto su base regionale o interregionale; c) un periodo di prova in servizio di durata annuale con test finale e valutazione positivi. Se sei “precario”, in servizio presso le istituzioni scolastiche statali per almeno 3 anni scolastici, anche non continuativi, basteranno 30 crediti. La formazione in servizio sarà garantita da una Scuola di Alta formazione dell’istruzione.

Il Decreto è stato contestato dai sindacati e da qualche ex-Ministro. La CISL ha adottato un Documento critico, intitolato “Non basta una legge per fare una buona riforma”, predisposto da Giuseppe Cosentino, già Capo Dipartimento Istruzione del Miur.  

Le critiche sono due rivolte al Ministro Bianchi: non ha svolto il necessario confronto preventivo con i Sindacati; non è prevista la carriera professionale degli insegnanti. Da Tuttoscuola al Documento Cisl-Cosentino si rimanda, con un filo di nostalgia, alla lontana stagione del 2004, quando, essendo Ministro Letizia Moratti, era stata messa a punto, in una triangolazione tra Miur, Sindacati e Aran, una proposta relativa al sistema di formazione e agli strumenti di sviluppo professionale degli insegnanti. Che è rimasta al palo. 

Ha ragione il Ministro o i sindacati?

Ha ragione il Ministro o hanno ragione i sindacati? Nessuna delle due parti. Per la semplice ragione che ambedue si muovono dentro un impianto culturale e istituzionale,  che ha generato i problemi attuali, non li ha risolti e non li risolverà.

Il teorema comune è che la formazione e il reclutamento degli insegnanti sono una faccenda del Ministero, cioè dell’Amministrazione centrale dello Stato. Perciò: l’Università offre il sapere, l’Amministrazione organizza i corsi abilitanti e i concorsi, i fortunati vanno a riempire i posti scoperti. La carriera è una serie di scatti di anzianità. Poiché in questione ci sono orari, organizzazione del lavoro, stipendi, professionalità, i sindacati pretendono giustamente di regolare queste materie con contratti ad hoc. Questo schema istituzionale-amministrativo centralistico – che i partiti e i sindacati hanno gestito e condiviso – è responsabile dell’attuale degrado del sistema educativo italiano, della precarietà delle soluzioni di volte in volta proposte e della malinconica irreformabilità del sistema.  

C’è un altro schema possibile?

Fu proposto nella Conferenza nazionale sulla scuola, tenuta a Roma, dal 30 gennaio al 3 febbraio 1990, Ministro dell’Istruzione Sergio Mattarella. Era la risultante, all’epoca, del parallelogramma delle migliori culture politiche della scuola: quella della sinistra democristiana, quella azionista-socialista, quella del PCI.

Precisamente delineato nella relazione di Sabino Cassese, lo schema vedeva le scuole non come un’articolazione amministrativa dello Stato centrale, ma come un’istituzione della società civile, radicata storicamente da secoli nelle comunità civili e religiose, nelle organizzazioni della produzione, del lavoro e dell’artigianato. Un assetto giuridico-istituzionale ed amministrativo, chiamato “autonomia”, ne doveva costituire lo scheletro.

Compito dello Stato era portare tutti i ragazzi a scuola e verificare, attraverso un sistema rigoroso di valutazione, la capacità delle scuole di rispondere alla domanda di istruzione e educazione.  Lo Stato poteva/doveva sussidiare questa autonomia e validarla, a garanzia dei ragazzi e delle famiglie.

Che cosa implica un’autonomia presa sul serio?

Nonostante i generosi tentativi di Luigi Berlinguer e di Letizia Moratti, l’autonomia è stato soffocata nella culla, è “andata a male”. Chi vi si è opposto? La maggioranza degli insegnanti, dei loro sindacati e dei loro partiti, contrari ad un’autonomia presa sul serio, perché ostili alle responsabilità che ne derivavano e alle conseguenze in termini di differenziazione di carriere e di stipendi e di inevitabile valutazione. Il merito professionale sarebbe stato premiato, l’incompetenza e la fannullaggine puniti. Non fosse mai!

Che cosa implica un’autonomia presa sul serio? Che la formazione, il reclutamento, l’assunzione/licenziamento e la valutazione degli insegnanti devono avvenire in quella speciale “bottega educativa artigiana”, singola o in rete con altre, che è, appunto, ogni Istituto scolastico. Gli insegnanti non si formano in Università, perché il suo compito non è formare insegnanti, ma fornire quote consistenti di saperi a chi vi accede.

La capacità di insegnare si acquisisce e viene verificata sul campo da chi è già esperto in mediazione didattica e in relazione educative. Abilità che non si acquisiscono neppure nei Dipartimenti di Scienze della Formazione. E’ sul campo che si accerta e si valuta se l’aspirante docente dispone della “vocazione” e della professionalità necessarie per stare in relazione educativa e didattica con i ragazzi. I concorsi nazionali con quiz e le lezioni fasulle sono modalità ridicole di reclutamento. L’esame della patente si fa con il volante in mano. Senza sperimentazione sul campo, senza colloquio, senza valutazione si gettano i ragazzi in pasto agli incompetenti e gli incompetenti in pasto ai ragazzi.  Se la scuola sta perdendo capacità di insegnare la lingua, di trasmettere i saperi fondamentali e di contribuire a formare il carattere, molto dipende da chi i ragazzi hanno di fronte, in casa ea scuola. Giacché, il teorema fondativo dell’educazione è, da sempre, il seguente: “si comunica ciò che si è”. E se uno non è?!  

Il ricorso al precariato è diventato strutturale

Quanto alla pretesa di programmare centralisticamente l’incontro tra domanda e offerta di insegnanti, questi decenni hanno dimostrato che è irrealizzabile, anche se l’apparato fosse stato in grado – il che non è mai stato – di organizzare un concorso all’anno. Il divario tra le urgenze quotidiane e le capacità dell’Amministrazione scolastica è tale che il ricorso al precariato è diventato strutturale. Esso non è l’effetto di un momentaneo disfunzionamento del sistema, ne costituisce il sottoprodotto normale, endogeno. Solo sulla scala quotidiana delle singole autonomie, singole o in rete, è possibile rispondere tempestivamente alla domanda.

Conclusione: dopo anni di rinvii, il PNRR non concede al Ministro Bianchi molto più tempo “per ampi e articolati confronti”. I Sindacati difendono legittimamente i propri spazi, ma non risulta negli ultimi vent’anni nessuna strenua battaglia sindacale sul tema. Adesso si è fatto tardi!

 Perché? Dietro sta il fallimento della politica. Nel corso degli anni ’90, la cinghia di trasmissione partiti-sindacati ha definitivamente invertito la direzione: i sindacati hanno dettato la linea politica ai partiti e all’Amministrazione ministeriale. La scuola è stata trasformata in una serie di problemi della categoria, ha perso il nesso con la produzione, con lo sviluppo civile e culturale del Paese, con il futuro della Nazione. Per i partiti, la scuola funziona solo come serbatoio di voti. E, come è ormai evidente, gli elettori decidono le strategie dei partiti. La chiamano democrazia. E’ populismo.