25 aprile: le metamorfosi della Resistenza 

Gli storici degli ultimi decenni, a partire da Claudio Pavone, hanno fornito un quadro interpretativo definitivo del movimento politico-militare della Resistenza – 9 Settembre 1943/25 Aprile 1945.

In quel largo fiume di eventi sono confluite tre “guerre” di consistenza diversa: quella di liberazione nazionale dal nazismo e dal suo alleato fascista; quella civile tra Italiani; quella “di classe”, che riprendeva il filo del biennio rosso 1919-21 e che puntava sulla lotta di Resistenza quale prima tappa della rivoluzione proletaria.

Quei tre moti sono stati alimentati da culture politiche: una cultura di unità nazionale, una cultura di guerra civile, una cultura di… rivoluzione. Finita la Resistenza nel 1945, in un quadro nazionale e internazionale profondamente cambiato dall’instaurazione della cortina di ferro, quelle culture ebbero un destino diverso.

La cultura dell’unità nazionale, che aveva ispirato il moto di liberazione nazionale – formato da tutto l’arco democratico della politica, da tutti i settori sociali, da settori dello Stato, dell’Esercito, della Polizia, dei Carabinieri, della Chiesa, delle Parrocchie… – resse fino al varo della Costituzione, ma dopo il 18 aprile del ‘48 si ibernò.

Sarà riattivata solo dopo la strage di Piazza Fontana e dopo il golpe cileno, per fondare storicamente il compromesso storico e la politica dei governi di unità nazionale.

Sarà, il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, tra il 1999 e il 2006, a riconsegnare alla Resistenza il suo volto nazionale, nominando e riconoscendo ufficialmente tutte le forze che vi avevano partecipato, comprese quelle a-comuniste o anti-comuniste.

Con ciò rinverdendo quell’idea togliattiana della Resistenza quale “Secondo Risorgimento”, al quale alludeva la stessa denominazione “Garibaldi” delle Brigate comuniste.

Quanto alla Resistenza come “guerra di classe”, le sue velleità vennero spente dalla sconfitta del blocco delle sinistre nel ’48 e finirono nei Tribunali o sugli schermi cinematografici di Don Camillo, con il carro armato e gli Sten nascosti nei fienili di Brescello. Così nacque il mito della “Resistenza tradita”.

Innescato all’indomani della caduta del Governo Parri dell’8 dicembre 1945, alimentato fino al 1948 dalla corrente “partigiana” e antitogliattiana interna al PCI, resistette nella memoria di molti partigiani, fino a riaffiorare carsicamente, grazie a loro, nelle assemblee universitarie del ’68.

Suoi corollari alcuni slogan giovanili degli anni ‘70: “La Resistenza è rossa, non è democristiana”, “W La Nuova Resistenza”, mentre come “Nuovi partigiani”, venivano ricordati le giovani vittime degli anni ’70 delle Forze dell’ordine e delle squadre fasciste.

Intanto, l’ANPI si divise. Per sfuggire alla presa dei comunisti, nel 1949 venne fondata la F.I.A.P, Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, non comuniste. I partigiani ANPI diventavano, nel frattempo, tra il 1949 e il 1956, i “Partigiani della pace”, promossi dal PCI e dal PSI, teleguidati dall’Unione sovietica, in funzione anti-americana e, pertanto, filo-sovietica.

Ma il filone che ha avuto fortuna più di ogni altro è quello della “guerra civile”. Si sa, “il fascismo è eterno”: così disse Umberto Eco alla Columbia University il 25 aprile 1995, elencandone ben 14 caratteri distintivi, dei quali la maggior parte definisce, in anticipo, il populismo degli anni 2000, lietamente condiviso da destra e sinistra.

E se il fascismo è eterno, deve esserlo anche l’antifascismo. E così la Festa della Liberazione, dalla vittoria elettorale di Berlusconi del 27-28 marzo 1994, è diventata una festa settaria. Lo è diventata, perché da sempre è una festa delle sinistre, la cui gestione è da sempre affidata all’ANPI.

Non è mai stata pensata come festa civile nazionale. È una “festa nostra”, una festa che esclude. La presenza di esponenti di destra acomunista o anticomunista è sempre stata scoraggiata, male accolta, quando non contestata violentemente. È accaduto con Bossi.

È accaduto con Letizia Moratti, quando, Sindaco di Milano, il 25 aprile del 2006 spingeva nel corteo la carrozzella del padre Paolo Brichetto Arnaboldi, eroe partigiano, medaglia d’argento, scampato a Dachau.

Peccato che fosse “un partigiano bianco”. È noto che i partigiani o sono rossi o non sono. O no?!

L’aggressione russa all’Ucraina, nel nome della denazificazione, e quella più recente di Hamas a Israele, con lo slogan “Palestina dal Giordano al mare”, hanno avuto l’effetto di ricondurre l’ANPI agli schemi ideologici degli anni ’50.

Sullo striscione di testa del prossimo 25 Aprile a Milano starà scritto: “Cessate il fuoco ovunque!”. In prima fila? Ponzio Pilato. Una festa che celebra la Liberazione nazionale, conquistata con il sangue e le armi degli Alleati e del Movimento insorgente contro l’oppressione si propone come “la festa della pace-resa” alla violenza armata.

Gli aggrediti sono invitati ad alzare le braccia. Se lo fanno, anche Putin lancerà fiori dai suoi droni; Hamas/Iran potranno liberamente gettare gli Ebrei nel Mediterraneo; Xi Jin Ping si annetterà pacificamente Taiwan e così la Pace si estenderà sull’intero pianeta.

Con un’avvertenza: non “la pace perpetua” di Kant, ma quella di cui scriveva Tacito nell’”Agricola” nel 98 d. C: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”. Un pianeta-solitudine, dove le libertà e i diritti fondamentali dei singoli e dei loro Paesi vengono “pacificamente” rasi al suolo dai missili. Una pace-sudario.

Questa involuzione dell’ANPI ha molte spiegazioni. La prima: dei 300 mila partigiani del 1945, ne sopravvive qualche centinaio. I nuovi iscritti provengono dalla sinistra radicale e massimalista, che è ormai egemonica nel PD. Tanto emotivamente generosa quanto senza storia, non solo perché non l’ha vissuta – e questa non è una colpa -, ma perché non l’ha studiata e dalla sua “eco-chamber” neppure la sente. Una sinistra woke, una sinistra “Peter Pan nei giardini di Kensington”.

La sua visione della storia è quella di una sagra festosa dei diritti individuali e sociali. La storia senza violenza, senza prepotenza e, perciò, senza Nazioni, senza Stati, senza eserciti. Il fascismo è eterno? A questa sinistra di talpe cieche Giorgia Meloni fornisce spesso involontariamente delle piccole trappole, quale la trappola- Scurati.

È noto che la Meloni si è fatta le ossa nell’underground della destra nostalgico-folklorica romana. È passata come una salamandra nel revisionismo del post-fascismo di Fini – quello del Fascismo come “male assoluto” – riuscendo a salire dal 4,35% del 2018 al 25,99% del 2022, costruendo il proprio consenso non sulla nostalgia del fascismo, ma su un mix, fatto di tradizione conservatrice europea, di sovranismo nazionalista, di populismo antipartitico, ma non anti-istituzionale e non anti-Stato – ciò lo distingue dal populismo del M5S.

È questa una piattaforma ideologica del Fascismo eterno? Non pare. E così Fratelli d’Italia non è un partito nostalgico del fascismo, benché una sua minima parte radicale non ne nasconda la nostalgia.

La realtà è che la Destra politica italiana, a direzione Meloni, è una destra ideologicamente confusa e in transizione. La realtà è che la Sinistra politica italiana, a direzione Schlein, è una sinistra ideologicamente confusa e in transizione.

Il liberalismo di destra e di sinistra resta un pio orizzonte trascendentale kantiano. Verso il quale si potrebbe fare un primo passo, incominciando a riconoscere e a celebrare la Festa della Liberazione quale festa della Nazione. Di una Nazione, che è consapevolmente protagonista nel concerto euro-atlantico delle democrazie liberali.