“Forma mentis” al Museo Bernareggi: l’arte diventa volto e incontro

“Ho lasciato una traccia”: la mostra Forma Mentis, inaugurata nei giorni scorsi al Museo diocesano Adriano Bernareggi apre uno spazio d’espressione speciale e insolito e mette l’accento su differenze che arricchiscono.

Lianne Schreuder, arteterapeuta e fondatrice dell’Atelier Collegamenti, racconta che «L’inaugurazione è stata una bellissima esperienza per gli artisti. Sono stati bene, inaspettatamente, mentre un pubblico osservava le loro opere. Mostrare a qualcun altro la propria opera, dire “L’ho fatto io!” per loro ha significato dire “Ho lasciato io la traccia, io sono qua e ho un valore!”».

Gli artisti di cui racconta Lianne e che partecipano a Forma Mentis sono persone diversamente abili che nell’Atelier da lei guidato trovano un ambiente sicuro in cui potersi esprimere attraverso l’arte. «È sbagliato chiamarli disabili e trattarli come tali: sono artisti! E sono diversamente abili, ognuno abile a modo suo, in modo diverso da chiunque altro». L’obiettivo di Collegamenti e della mostra Forma Mentis è proprio diffondere questo messaggio, costruire un sistema in cui gli artisti possano diventare autosufficienti.

«Il lavoro di questi ragazzi deve essere preso sul serio» afferma Lianne «Abbiamo quindi creato un’Artoteca per promuovere la conoscenza di queste opere speciali che si possono noleggiare per allestire spazi pubblici e privati».

Lianne parla dei suoi ragazzi e dei loro lavori con grande emozione, attenzione e orgoglio, me li presenta mentre passeggiamo in museo tra le loro opere. «Raffaella sta perdendo sempre più la vista, ma i suoi quadri diventano sempre più belli, lei sa vedere con il cuore. E poi…le cornici sono realizzate dal suo papà, è molto bello questo: il papà contiene e custodisce il lavoro della figlia. Stefano comunica molto poco, contiene il suo malessere attraverso l’arte durante l’attività nell’atelier. Le tempere su spazi grandi sono il mezzo che preferisce per fare arte. Durante un periodo molto difficile l’abbiamo dovuto indirizzare verso spazi più limitati, contenuti, seduto al tavolo, con i colori più tenui di pastelli e acquerelli per evitare che si perdesse».

Fino a che punto l’arteterapeuta può intervenire nella libera espressione degli artisti? «L’arteterapeuta guida il lavoro, dà a ogni ragazzo ciò di cui ha bisogno, ma non interviene. Si parla infatti di dialogo creativo, l’opera d’arte è come una fotografia del momento in cui l’utente, l’arteterapeuta e in alcuni casi anche l’educatore stanno insieme. Con l’arte anche chi non sa parlare può raccontare ciò che vive, come Davide. Lui non stava in piedi, ha grandi difficoltà di movimento, ma l’arte l’ha letteralmente rialzato. Ora dipinge in piedi, si sente più libero».

E lei, come arteterapeuta, che “fotografie” porta a casa di questi momenti?
«Io porto a casa il dono della persona e di quel momento. Spesso il tempo ci sfugge dalle mani, siamo sempre di fretta, ma quando sono con loro il tempo rimane, viene incorniciato. Arteterapia significa Relazione, la scuola vera per me è iniziata dopo i miei studi di arteterapia. Bisogna costruire la relazione con ogni ragazzo, tutto deve essere su misura e questo è molto importante. Se vogliamo che per loro l’arte abbia un senso dobbiamo partire da loro. Antonietta, per esempio, è una persona molto movimentata dentro, ma molto fine, non le piace sporcare. Allora abbiamo provato a far colare la tempera dal foglio girandolo sempre prima che il colore gocciolasse fuori dal foglio e ne è uscita una bellissima opera. Giuliano, invece, è ipersensibile. Traccia una pennellata sul foglio poi si allontana e ritorna, così c’è bisogno che qualcuno gli stia accanto, qualcuno a cui possa andare incontro o con cui possa scontrarsi. Questo lo rassicura e lo contiene, così torna, un’altra pennellata e via di nuovo…».

Ci sono anche fatiche nel costruire queste relazioni?
«La fatica più grande in realtà è il confronto con la propria paura, con la paura del non sapere come approcciarsi a loro, di poter sbagliare. Ma la soluzione c’è: partire sempre dalla persona, è chi ho di fronte che deve dirmi fino a dove posso arrivare. Non devo guardare a cosa non può fare quella persona, ma capire cosa può fare. È come trovarsi davanti un muro, bisogna avere il coraggio di fare un buco, se si scava poi si trova un tesoro! Me lo ha dimostrato Walter. Lui è molto rigido, preciso, volevamo che imparasse a esprimersi in maniera più libera proponendogli come esempio il modo di dipingere di Andrea, ma lui ci ha fatto capire che la personalità di ognuno è da rispettare. Ha interpretato a modo suo le pennellate ampie e impetuose di Andrea rendendole piccole, precise e regolari. Andrea quando dipinge o scrive invece sembra che balli, inoltre è molto verbale, racconta tanto delle sue opere e quando le descrive usa i movimenti che ha dipinto. Lui ha imparato dipingendo a gestire il suo bisogno di controllo, a fare delle scelte, a occuparsi di un problema alla volta mettendo da parte ciò che non si può risolvere subito. Se correggo un errore appena fatto le tempere si mischiano. Prima devo lasciare asciugare, poi me ne occupo. Uno dei benefici dell’arteterapia è proprio imparare a gestire le scelte e le difficoltà quotidiane».

Quali sono altri benefici che l’arteterapia porta a questi ragazzi?
«I benefici sono diversi per ognuno, ma certamente a tutti giova poter godere di un ambiente protetto in cui stanno bene e trovano persone di cui si fidano. Il beneficio più grande per loro, però, è certamente potersi esprimere, esternare ciò che hanno dentro per farsi capire meglio dagli altri, ma anche per capire meglio se stessi. Con l’arte, con il loro modo di fare arte esprimono cose che non riescono a raccontare con le parole. Claudio, ad esempio, fatica a esprimersi e a relazionarsi in modo classico. Lui porta sempre in tasca un cronometro che, quando dipinge, usa come un telefono fingendo di parlare con qualcuno. È il suo modo di dire: “Sono impegnato, non disturbatemi!”. Marco invece esterna il suo bisogno di accumulo sovrapponendo tanti strati di pittura. Lui compra moltissime caramelle all’oratorio, quelle gommose, e ama dipingerle una sopra l’altra, riempiendo la tela»

Gli artisti lavorano sempre da soli o anche insieme?
«Lavorano in alcuni casi anche insieme, ne abbiamo un esempio nella mostra Forma Mentis con la poltrona dipinta da Andrea e Marco. Si tratta di una copia originale della Poltrona di Proust di Alessandro Mendini che ci è stata fornita dalla stessa azienda D3CO che le realizza per l’artista. Hanno conosciuto la poltrona passo dopo passo, ci si sono seduti, l’hanno toccata, l’hanno disegnata su una tela e infine dipinta. Hanno lavorato uno per volta, con molto rispetto per il lavoro dell’altro, senza sovrapporre nemmeno una pennellata a ciò che aveva dipinto il compagno»

Diceva all’inizio che questi artisti sono stati molto contenti di mostrare le proprie opere, ma quando dipingono lo fanno solo per se stessi o hanno già l’idea di mostrare la loro opera a qualcun altro?
«Per loro l’importante è dipingere, potersi esprimere e raccontare attraverso l’arte, sono liberi dai pensieri complicati che tanti di noi hanno come “Cosa penseranno gli altri?”. Possiamo imparare molto da loro»

Per chi vuole immergersi e lasciarsi toccare dai mondi interiori di questi artisti la mostra Forma Mentis è visitabile fino all’11 ottobre presso il Museo Adriano Bernareggi (Bergamo, via Pignolo, 76) da martedì a domenica, dalle 14.00 alle 18.00.

Per conoscere di più sull’Atelier Collegamenti:

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Per ulteriori informazioni sulla mostra:

Segreteria Fondazione Adriano Bernareggi
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