Dopo il covid la rinascita. La storia di Riccardo Gotti: “Ho vinto la malattia grazie all’amore”

C’è un sorriso negli occhi di Riccardo Gotti, chirurgo vascolare dell’ospedale Papa Giovanni XXIII sopravvissuto al covid dopo una battaglia epica, per due mesi e mezzo intubato in terapia intensiva, attaccato per 55 giorni alla Ecmo, la macchina per la circolazione extracorporea.

È l’espressione serena di un uomo che si è lasciato alle spalle il dolore e la paura, nonostante la ripresa sia stata lenta e faticosa e il corpo porti ancora i segni di ciò che è stato.

Lui, medico, ha dovuto imparare a essere “paziente”, provando su di sé – all’ennesima potenza – tutte le implicazioni di questa parola. E poi ha sentito la necessità – l’urgenza, quasi – di raccontarlo.

“Danza di sguardi” un libro per esprimere gratitudine

La “Danza di sguardi” di quei giorni è raccolta ora in un libro pubblicato dalle Edizioni Gruppo Aeper. Il 6 novembre alle 17 l’autore lo presenta in un reading al Cineteatro Sorriso di Gorle, una tappa di una serie di incontri che continuerà il 15 dicembre alle 20,45 al Circolino di Città Alta.

Riccardo è sposato con Alessandra e ha quattro figli: “Quando io parlo – racconta – c’è sempre qualcuno che si gira verso di lei e le fa i complimenti per ciò che è successo, per il modo in cui ha reagito”.

La famiglia è stato motore e alimento per Riccardo sempre, ma soprattutto nei momenti più drammatici. “Ho deciso di scrivere un libro – spiega – prima di tutto per me stesso, per mettere in ordine i miei pensieri  e rielaborare le parti più difficili della mia esperienza. Lo considero un modo per testimoniare il dramma ma anche per esprimere gratitudine per l’amore immenso che ho ricevuto. Moltissime persone sparse in tutto il mondo, anche sconosciute, hanno conosciuto la mia storia e mi sono state vicine. Sono nati spontaneamente, ovunque, tanti gruppi di preghiera per sostenere me e la mia famiglia. Questa partecipazione anche oggi continua a sorprendermi e a commuovermi. È passato tempo ma continuo a scoprire nuove connessioni, nuovi dettagli e a ricevere centinaia di messaggi. Non voglio perdere tutto ciò che di bello e di utile c’è stato”.

Una storia personale e collettiva: Bergamo nella tempesta del covid

C’è un pezzo di storia di Bergamo nel libro di Riccardo, quella del momento peggiore in cui la nostra città si è trovata – senza sapere come – epicentro di una pandemia, con gli ospedali presi d’assalto e migliaia di morti.
“Tutti parlano della pandemia in senso negativo, ma io ne ho vissuto anche l’aspetto positivo. C’è stata una grande sofferenza, ma non c’è soltanto questo”. 

Parla ancora con fatica del ricovero in ospedale, sul quale proprio in quei giorni si riversava la tempesta dei contagi, dei continui peggioramenti delle sue condizioni, della desolante solitudine, della disperazione quando gli è stato comunicato che dovevano intubarlo: “Mi hanno detto “ti intubiamo o muori”. E da quel momento sono passate cinque, lunghissime ore in cui ho dovuto salutare mia moglie e i miei figli scrivendo loro dei messaggi, senza sapere se li avrei mai più rivisti”. Accanto a questo, però, ci sono il coraggio, l’affetto, la volontà di lottare. Come dicevano in quei giorni oscuri della prima ondata “mola mia”.

“Quando mi sono risvegliato potevo comunicare solo con gli occhi”

Quando si è risvegliato e ha iniziato a passeggiare fra le torri dell’ospedale con il deambulatore tutti i dipendenti dell’ospedale lo fermavano per salutarlo, per parlargli. La sua storia è diventata simbolo della resistenza e della rinascita. È uno dei pochi, in Italia, ad aver superato il covid nella sua forma più aggressiva e grave.

Nei suoi ricordi c’è un solo punto buio, il periodo in cui è stato intubato: “Mio suocero è morto di covid tre giorni prima che mi intubassero, e questa immagine è tornata, in modo diverso, nei sogni che ho fatto in quel periodo. Per la mia famiglia è stato un periodo durissimo”.

Il risveglio è stato graduale, con una progressiva, lenta riduzione della sedazione. “Da quanto mi ricordo c’è sempre mia stata mia moglie accanto per un’ora al giorno. Non potevo muovermi, ero completamente paralizzato e potevo comunicare solo con gli occhi. Ho dovuto imparare ad esprimere ciò che sentivo e di cui avevo bisogno con lo sguardo. Da qui è nato il titolo del libro”.

Le prime parole dopo la terapia intensiva: un lento ritorno alla vita

Poi Riccardo ha dovuto ricominciare tutto da capo, come accade ai bambini: le prime parole, i primi passi, tenere in mano le posate. “Tante volte mi sono chiesto perché mi avessero salvato. Non sapevo ancora come sarebbe andata poi, se sarei riuscito a superare quella condizione disumana”. Ha sperimentato la sensazione di essere completamente affidato agli altri, incapace di fare qualunque cosa senza aiuto.

Ricoverato il 9 marzo, è stato dimesso dalla terapia intensiva a metà di luglio, per iniziare poi la riabilitazione alla Casa degli angeli di Mozzo. “Mi sono risvegliato immobile. Ogni muscolo ha dovuto recuperare la propria funzione. In un anno intensissimo ho sperimentato tutte le possibili condizioni di vita. Semmai questa condizione mi ha regalato una vicinanza nuova e inedita con le persone. Questo periodo l’ho vissuto con persone che mi amavano immensamente, e non mi hanno mai lasciato”.

Il primo incontro, desideratissimo, con i figli è stato molto difficile: “Mi hanno visto molto deperito, sulla sedia a rotelle, con la testa rasata e la bombola di ossigeno”.

Un cerchio di partecipazione, solidarietà e vicinanza

Intorno a Riccardo si è formato un cerchio di partecipazione, di solidarietà, di vicinanza: “Ho vissuto qualcosa di terrificante, e non avrei mai potuto superarlo senza l’aiuto degli altri. Quando sono tornato a casa i miei figli mi aiutavano. Per uno come me, abituato a curare gli altri, è stato un forte cambiamento di prospettive”.

Riccardo ha imparato a fare i conti con la fragilità, con la morte: “Ho avuto paura”.

Mia moglie e i miei figli sono rimasti per due mesi e mezzo in casa, perché tutti e cinque malati di covid, anche se in modo non grave: “Intorno a loro si è creata una rete di sostegno, da parte di persone che procuravano loro ciò che era necessario per vivere”.

La consapevolezza della fragilità, la forza di superare gli ostacoli

Alla fine tutta la famiglia ha condiviso una forte consapevolezza della fragilità, della fatica ma anche della capacità di superare gli ostacoli e su quanto contano gli affetti veri nei momenti di difficoltà. “Ne sono uscito cambiato. Viviamo la nostra esperienza quotidiana normalmente, abbiamo ripreso la nostra vita, ma con una nuova consapevolezza. Ho dovuto imparare a mettere la mia vita nelle mani degli altri, a fidarmi, a ricevere cura e sostegno. È stata importante la possibilità di creare legami, la sensazione forte di non essere soli. Considero la guarigione come un grande dono ma il vero miracolo io lo avverto nel movimento che si è creato intorno a noi, in questa vicinanza d’amore. E recuperare questo, ciò che di buono abbiamo vissuto, secondo me ci può aiutare ad andare avanti”.