Il vento gelido del populismo

Foto: i due candidati alle elezioni presidenziali in Austria: Alexander Van der Bellen, neo presidente, e lo sfidante Norbert Hofer

Presi dalla rissa legata al referendum di domenica scorsa, la gran parte di noi italiani non si è resa conto della partita, ben più importante, che si stava giocando in Europa. Per la prima volta, un candidato campione dell’estrema destra populista ha rischiato di diventare Presidente di una nazione europea. Stiamo parlando dell’Austria dove Norbert Hofer, membro di una confraternita di ultradestra e pangermanica, che aveva come slogan “Prima l’Austria e gli austriaci” e che in campagna elettorale non aveva nascosto le sue idee xenofobe accusando i profughi accolti nell’ultimo anno e mezzo di fomentare criminalità, è stato battuto dal verde Alexander Van der Bellen. Se Hofer fosse stato eletto (e in sondaggi lo davano per favorito), sarebbe stata la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale che un Paese europeo sceglieva come capo di Stato un esponente di estrema destra.

La seduzione degli slogan

Insomma, sta spirando in tutto il mondo un vento gelido che pare spazzare via storie e culture politiche che appaiono afone e incapaci di fronteggiare l’inedito che avanza. Un vento che porta con sé parole e proclami che si pensavano spenti da molto tempo. Un mix di demagogia e populismo che lega insieme rabbia sociale e risentimento in una deriva antipolitica che,  nei fatti, rischia di legittimare, dal punto di vista del consenso elettorale, il peggio. Che si nutre di slogan seduttivi e gridati. In fondo, il populismo indica soluzioni facili e si concentra su un nemico che diventa il capro espiatorio, il bersaglio da colpire. Parla alle emozioni e quindi è poco attaccabile con argomenti razionali, anche quando le sue ragioni sono molto deboli.

Come il paradosso –  fatto notare con intelligenza da  Christian Albini sul suo blog www.sperarepertutti.typepad.com –  a proposito  di Donald Trump di farsi eleggere a capo di una nazione la cui ricchezza viene dall’immigrazione facendo una campagna contro gli immigrati. O – ancora nel caso di Trump – il presentarsi come campione degli impoveriti da parte di chi ha sempre fatto parte dei privilegiati.

Chi oggi si oppone ai populismi non ha parole forti da lanciare, emozioni da suscitare. Rischia di apparire demodè.

E i cristiani?

Ciò che oggi va per la maggiore non sono parole di Vangelo e noi cristiani dovremmo avere il coraggio di denunciarlo. Ho trovato strano, ad esempio, l’assordante silenzio della Conferenza Episcopale europea rispetto all’elezione di domenica scorsa in Austria. Ma le dichiarazioni non bastano. Chi di noi da credente ha a cuore l’umano gli si prospetta un impegno non da poco: non lasciare il popolo ai populisti.

Come fare? Solo se saremo capaci di stare in mezzo alla gente, di accompagnarla, di ascoltarla e prendere sul serio le domande e fare un lavoro di tessitura. Solo se rimetteremo al centro l’impegno – laico, nella città di tutti – di costruire terre di mezzo tra diversi capaci di cercare, nonostante tutto, il bene di tutti. Il popolo non è sedotto dai populisti solo se ha vicino qualcuno che sta dalla sua parte, che gli dimostra che si può accogliere il profugo straniero così come il disoccupato italiano. Se ha vicino uomini e donne che in modo disinteressato vivono l’impegno politico con passione e competenza, dedizione e rigore.

Oggi stiamo pagando anche lo scotto di aver educato una generazione di credenti a non sentire la storia e la città come luoghi di fedeltà al Dio dell’incarnazione. Li abbiamo portati a pensare che si potesse essere credenti del Dio di Gesù a prescindere da un impegno per rendere il mondo, vera basilica dopo l’incarnazione, un posto un po’ più giusto, inclusivo e solidale. Senza paure o remore, perché, in attesa del Regno, nel destino del mondo è inscritto il destino dei credenti.