Monaci e società. L’eremo di Lecceto

Foto: l’eremo di Lecceto, in provincia di Siena

Il monaco, marginale per scelta

In questi anni ho avuto la fortuna di incontrare, in Italia e all’estero, diverse comunità monastiche. Donne e uomini che appartengono – diceva il grande Thomas Merton

ad una davvero strana categoria di persone, di gente ai margini, perché nel mondo moderno il monaco non ha più un suo posto ben preciso nella società… non appartiene ad alcun establishment: è una persona marginale che deliberatamente si ritira ai margini della società con il proposito di approfondire un’esperienza umana fondamentale.

Per questo – continuava il trappista dell’abazia di Gethsemani (Kentucky) in quella che fu la sua ultima conferenza – i monaci

sono deliberatamente irrilevanti. Vivono con quella irrilevanza congenita che è propria di ogni essere umano. L’uomo marginale accetta l’irrilevanza fondamentale della condizione umana, che si manifesta soprattutto con la morte. La persona marginale, il monaco, il profugo, il prigioniero, tutta questa gente vive in presenza della morte, la quale mette in discussione il significato della vita. Questa gente combatte la morte dentro di sé, cercando qualcosa di più profondo della morte; perché c’è qualcosa di più profondo della morte, e il compito del monaco o della persona marginale, della persona meditativa e del poeta è quello di andare al di là della morte anche in questa vita, di andare al di là della dicotomia vita-morte ed essere perciò testimone della vita.

Nel mio peregrinare in monasteri ho avuto modo di sperimentare quanto questo sia vero. Testimoni della vita perché testimoni di un senso capace di attraversare il quotidiano mostrando l’essenziale dell’esperienza umana. Che è fatta, anzitutto, di gratuità. D’altronde, quello che in una società e pure in una Chiesa preoccupate dei ruoli pare essere un limite, è, invece, lo specifico e la risorsa dell’esperienza monastica: l’apparente inutilità.

Il monachesimo, da sempre, non ha una finalità particolare, né un ministero pastorale e non si caratterizza se non per una radicale obbedienza al Vangelo nel celibato e nella vita comune. Certo, non si vuole qui idealizzare uno stato di vita cristiana o riconoscergli, come a lungo si è fatto nella storia della Chiesa, un primato o un privilegio rispetto ad altre forme. Solo si intende ricordare, in tempi come questi dove il religioso appare sul mercato come un ricercato prodotto di consumo ed è continuo l’uso e l’abuso del sacro, che l’esperienza monastica indica ai cristiani che la radicalità evangelica deve assumere il volto dell’accoglienza gratuita e della fede povera.

Per questo, i monaci, anche oggi, pur stando ai margini della comunità cristiana, indicano ai credenti l’essenziale della fede cristiana. Come scrive con acutezza Sequeri:

l’interesse intramontabile della forma monastica, insieme con la sua singolarità cristiana, sta proprio nel fatto che essa rende speciale l’essenziale, massimo il minimo, eccezionale ciò che è più comune.

Uomini e donne che vivono con l’urgenza del Regno che viene, alla sequela del Signore attraverso la passione per la Parola, la cura della fraternità, il lavoro. Separati dagli uomini eppure dentro la storia, per indicare un oltre, a provocare una Chiesa dal corpo pesante a non farsi sedurre dagli idoli che confondono l’eschaton. “Comunità umane di resistenza”, le chiama qualcuno. Un amica patrologa, Cristina Simonelli, scrive che questa “resistenza” a ciò che viene imposto come “unico modo possibile di vivere” è

possibile intravederla in uomini e donne, gli uni e le altre in carne ed ossa e con “nomi propri”, che si giocano interamente nel limite della propria situazione, icona di un’utopia possibile; che vivono non in comunità ideali di cristallo, ma nei non troppo trasparenti luoghi della loro “resistenza”.

Questa resistenza dice a tutti noi il valore radicale di ogni esistenza umana, il fascino di un progetto amato, la profezia di una piccola via condivisa, Vangelo possibile.

Tutto questo mi veniva in mente salendo verso l’Eremo di Lecceto, il più famoso eremo agostiniano fondato in terra di Siena. Ancora oggi, per arrivarvi, si deve passare nel mezzo di una lecceta, in un’area chiamata Ghirlanda, a circa un chilometro da San Leonardo al Lago. Il nome originale era Foltignano, ma già nel 1220 era conosciuto come Selva del Lago. Di questo eremo non si conosce il nome del fondatore, né l’anno di fondazione. Il documento più antico che ne parla risale al 18 settembre 1223. Sappiamo di certo solo che quando vennero costruiti l’eremo e la chiesa, il complesso era dedicato a SS. Salvatore e S. Maria Vergine. Nel corso dei secoli il luogo era famoso per la sua santità: qui saliva Caterina da Siena che, con diversi monaci agostiniani del convento, aveva amicizie e colloqui spirituali. Nella chiesa barocca a fianco del convento si può leggere: «Ilicetum vetus sanctitatis illicium» e cioè “L’antico Lecceto è seduzione di santità”. Dopo la soppressione napoleonica, il luogo è stato completamente abbandonato. Dal 1972 l’eremo è abitato da una trentina di monache agostiniane, molte delle quali giovani. Ho avuto modo di incontrarne una.

Un grande desiderio nel cuore

Cosa spinge oggi una giovane a scegliere la vita monastica?

Nel mio caso è stata una grande attrattiva. Studiavo giurisprudenza e pensavo che il mio futuro fosse nel segno della professione quando, ad un certo punto della mia storia, mi sono imbattuta nelle “Confessioni” di sant’Agostino. Lì ho trovato una parola che mi ha colpito e attratto ed era la ricerca di felicità che Agostino portava nel cuore e nella quale mi sono riconosciuta anch’io. Lì ho trovato espressa la anche la mia inquietudine, la mia insoddisfazione. Sì, io venivo da una famiglia molto bella, le amicizie non mi mancavano, lo studio prometteva bene, ero catechista e animatrice dei ragazzi in parrocchia e certamente non avevo mai pensato ad una consacrazione, tantomeno monastica. Però nella lettura del libro ho ritrovato quella sete di pienezza che avevo dentro di me e che le tante cose di cui la mia vita era piena non riuscivano a colmare in modo pieno e soddisfacente. Vi ho visto un’attrattiva a perdere la mia vita, a lasciarla, a non trattenerla per me in una realizzazione dove fossi io al centro.

L’ordine dell’amore

Il cuore della vostra vita è la preghiera…

Sì, la preghiera è proprio il luogo dove non siamo noi al centro, al centro c’è un Altro, c’è Cristo, c’è il fratello.

Come vivete la preghiera all’eremo?

Sette volte al giorno ci troviamo in chiesa per la liturgia delle ore. Dalle lodi a compieta tutto è cantato e condividiamo la nostra preghiera con le persone che ci raggiungono e che vogliono pregare insieme.

A che ora è la sveglia?

Alle sei e la giornata si conclude con la preghiera di compieta alle 21.30. La preghiera è alternata da orari di lavoro, di accoglienza, di studio, personale e comunitario, perché per la nostra spiritualità lo studio è una dimensione molto importante. Sant’Agostino amava ripetere che: “Più studi, più conosci, e quindi più ami”. La cosa bella, però, è che cerchiamo di vivere lo studio non come momento solamente personale, dove ciascuna coltiva il campo che più le interessa, ma anche come un’occasione di comunità. Ogni giorno ci riuniamo insieme a meditare su un documento della Chiesa o a rileggere insieme Sant’Agostino e tutto questo diventa motivo di riflessione per ciascuna di noi e di condivisione con le persone che ci raggiungono.

Qual è il centro della vostra scelta monastica?

Non ho dubbi: è la comunione. Agostino vede il monastero come una piccola Chiesa nella Chiesa di Dio: “Ecclesiola in ecclesia Dei”. Quest’idea per lui è così centrale, così importante che dice: “Perché desideri che il tuo amico condivida con te il cammino della ricerca? Perché il primo che arriverà alla verità comunicherà questa scoperta all’altro, perchè diventi un bene di tutti”. E così, per noi, la comunione diventa l’essenziale della nostra vita. Lo è anche per la scelta di povertà che cerchiamo di vivere: qui tutto ciò che è donato viene messo nel cosiddetto “tavolo della provvidenza” e diventa un bene di tutte, un bene della comunità. Per cui niente più è cosa mia e questo vale tanto per i beni materiali che per quelli spirituali. Se io ho un dono, dice ancora sant’Agostino, è per la comunità, perché sia messo al servizio dei fratelli. Agostino è così attento a vedere il cuore, alla limpidezza che è necessario avere, che dice che il cuore ha bisogno di ordine, deve essere un cuore “ordinato”. La sua ascetica è proprio quella dell’ordine dell’amore e in quest’ordine dell’amore ci rientra sia l’umiltà e sia il fatto di vedere l’altro, il fratello, non più come una persona da invidiare per i suoi doni e da considerare quindi come un concorrente, ma proprio come un fratello. Io ho in lui quello che a me manca, proprio perché quello che lui ha diventa un bene condiviso.

La comunione reale, che si realizza nella vita comune, che è un cardine della vostra spiritualità, immagino, non sia sempre facile da vivere, ha le sue contraddizioni e le sue fatiche.

Contraddizioni no ma fatiche senz’altro.

Come le gestite? In una realtà plurale come il vostro eremo, come riuscite a vivere davvero il valore della vita comune?

Direi, prima di tutto con l’ascolto. Senza voler affermare le proprie idee a tutti i costi. Qui ho davvero scoperto l’importanza dell’ascolto proprio come canale per entrare in relazione con la sorella che è diversa da me, che ha gusti, carattere e sensibilità diversi dai miei. Perciò, l’ascolto e quindi la disponibilità ad accogliere anche la differenza diventa essenziale per la nostra vita. Ho imparato che esiste un ascolto che, in un certo qual modo, permette all’altro di emergere, di essere riconosciuto e valorizzato, che non nega attriti e divergenze ma cerca di ricomprenderle. In questo, ancora una volta, sant’ Agostino ci è maestro. Nella regola scrive: “E’ più meritoria la sorella che più facilmente si adira ma è più pronta a chieder scusa, di quella che più difficilmente si adira ma è ancora più lenta nel chiedere scusa”. Il perdono è uno dei cardini della nostra vita. Costruisce sempre – ed ogni volta in maniera più stretta – i legami tra noi. Le assicuro che la cosa che più stupisce – così ci dicono – venendo a Lecceto (anche se spesso è data per scontata, quasi fosse naturale) è il fatto che un gruppo di donne che non si sono scelte, provenienti da esperienze, sia di storia personale che di Chiesa, anche molto lontane fra di loro, con personalità, sensibilità, temperamento e carattere, gusti e punti di vista diversissimi, vivano insieme ventiquattr’ore su ventiquattro, testimoniando un’unità e un affetto reciproco, una maniera così pienamente umana di stare insieme che può essere solo dono di Dio: «È grazia di Dio che i fratelli abitino nell’unità; non è per le loro forze né per i loro meriti, ma è dono di Dio, per la sua grazia che come rugiada scende dal cielo» (cfr. sant’Agostino, Commento al Salmo 132, 10).

Custodire nel cuore le storie degli uomini

Lei mi ha detto che è approdata qui per l’attrattiva per la preghiera e per questo tipo di vita contemplativo. Chi sta fuori dall’eremo spesso sostiene che è sempre più difficile conciliare nel nostro mondo che va di corsa vita e preghiera. Lei cosa ne pensa?

In realtà mi sembra un falso problema. Il fatto che noi siamo qui a vivere questo tipo di vita non ci esima, anzitutto, dalla fatica del lavoro, dalle preoccupazioni per gli altri, dalla necessità di farci carico della storia nella quale viviamo. In che modo? Anche grazie al servizio di ospitalità nascono relazioni, amicizie, condivisioni con persone più diverse, che approdano qui, spesso, con tante ferite, con alle spalle famiglie segnate da separazioni o da dolori. Sentiamo, davvero, una certa “maternità”. Sentiamo che quelle persone diventano parte della nostra vita, vengono affidate alla cura della nostra preghiera e in molti casi nasce una simpatia profonda, un coinvolgimento grande. Forse per alcuni la nostra vita contemplativa può sembrare uno spreco. Per noi è intercedere come una madre per la felicità dell’uomo, dentro la semplicità del quotidiano che scorre nel lavoro e nella preghiera, nell’incontro con l’altro.

Santa Teresa di Lisieux è patrona delle missioni perché ha portato dentro si sé il mondo e noi vorremmo fare lo stesso: fare spazio dentro la nostra vita per la vita delle persone, custodire nel cuore e nella preghiera le storie concrete di chi ci incontra, i problemi del mondo che abitiamo. Per questo per noi è fondamentale pregare: è un richiamo a dirci che tutto il tempo è attraversato da una presenza, dalla presenza santificante di Cristo.Tutto il tempo, quindi, ha una direzione precisa e non è che questa direzione gliela debbo dare io con la mia mentalità imprenditoriale, per cui il tempo è denaro e più cose riesco a fare meglio è. Questa presenza mi dice – piuttosto – di riempire di senso il tempo, di riempirlo prima di tutto di amore e questo fa sì che il tempo diventa lo spazio per la preghiera, una preghiera che diventa quindi vita, lì dove sono chiamata a vivere.

Quindi se io sono una madre di famiglia, prego facendo la brava madre di famiglia, è lì che prego, prego amando mio marito, con cui magari ho delle difficoltà; se sono un avvocato, la mia preghiera sarà non voler vincere la causa a tutti i costi. La preghiera cristiana, in fondo, ci richiama a questo: ad un’autenticità di noi stessi, della vita e dell’amore. Tant’è vero che Agostino dice: “Ama e fa’ ciò che vuoi”, sia che tu parli, parla per amore, “se taci, taci per amore; sia in te la radice dell’amore perché non può che derivarne bene”. In questo senso, allora, è sbagliato dire “non ho tempo per la preghiera”. Certo il fatto di condividere la preghiera liturgica o la lectio divina diventa la fonte che ti ridà le motivazioni per la tua vita quotidiana. Per noi, lo ripeto, soprattutto nella preghiera liturgica, che è il nostro modo di essere pubblicamente presenti al mondo, ci sentiamo in comunione con tutti gli uomini.

Un tempo di senso

Come è stato il passaggio da un “tempo pieno”, quello di prima, ad un “tempo apparentemente vuoto” come questo?

Vuoto no, altro sì. Mi viene da ridere perché mi tornano alla mente due osservazioni di una professa, una consorella giovane appena giunta qui all’eremo. La prima: “Oh, ma in monastero non esistono divani”; la seconda osservazione, invece, è stata: “qui cinque minuti sono cinque minuti, non si conosce la noia, perché davvero è vissuto tutto molto intensamente”.

Mi diceva prima che la sveglia è alle sei…

Sì, poi alle 6.30 ci ritroviamo in chiesa per l’ufficio delle letture. Tutta la nostra liturgia è cantata perché sant’Agostino sosteneva che “cantare è proprio di chi ama” e cerchiamo di prenderlo in parola… Dopo l’ufficio delle letture vi sono tre quarti d’ora di meditazione personale che per noi è sulla lectio divina della Parola del giorno. Ci ritroviamo alle 7.45 per le lodi, a cui seguono la colazione ed un tempo di studio personale, fino alle 9.30, quando ci ritroviamo di nuovo in chiesa per la preghiera di terza. Al termine, dalle 9.45 fino alle 12 vi è il tempo del lavoro nei vari ambiti della casa (lavanderia, cucina, portineria, foresteria) e nelle altre attività: grafica, biglietti, calendari. Grazie all’estro di suor Maria Rosa – geniale e divertente autrice di vignette a sfondo religioso – abbiamo ordini per tutte le librerie cattoliche d’Italia e non solo. Alle 12.15 abbiamo l’ora sesta, cui segue il pranzo e un tempo che chiamiamo di ricreazione in cui ci ritroviamo tutte come comunità, perché invece durante il lavoro si lavora in coppia, per condividere ciò che si è vissuto durante la giornata. Questo fino alle 14. Poi fino alle 15 tempo di silenzio o di riposo o di studio e preghiera. Alle 15.15 abbiamo la preghiera di nona, il rosario, e dopo un’ora di lectio comunitaria, un’ora di studio che facciamo insieme, comunitariamente. Dalle 17 alle 18, altra ora di lavoro e alle 18.15 messa e vespri e poi tre quarti d’ora di meditazione. Alle 20 la cena a cui segue un tempo di ricreazione. Alle 21.30 la preghiera di compieta che chiude la giornata.

Un tempo pieno, insomma…

Sì, posso dire che la noia la provavo più quando ero fuori. Prima avevo facilmente dei tempi morti, dei tempi vuoti, dei tempi che non sapevo come riempire. Qui di fatto tutto è pieno, tutto parla di una presenza che io trovo in coro, ma che mi accompagna anche durante il lavoro, la ricreazione, durante l’incontro che abbiamo con le persone, vero volto del Signore.

È riuscita a laurearsi?

Sì, sì, mi sono laureata. Sono perfino riuscita a fare sei mesi di pratica da un avvocato.