Quando il Papa il 7 settembre scorso ha fatto pregare per la pace in Siria, s’è posta immancabile la domanda se è davvero pensabile che la preghiera possa servire a scongiurare la guerra e a fare scoppiare la pace.
Beh, se per pregare s’intende semplicemente il recitare delle formule, dobbiamo dire che le formule potrebbero essere proprio solo degli scongiuri. Ma la fede non è superstizione! Il pregare è un’altra cosa.
Ricordo che, anni fa, in occasione dell’ennesima grave crisi politica internazionale con forti pericoli di guerra, fu chiesto durante il GR del mattino a un intellettuale ateo che cosa, secondo lui, servisse di più in quel frangente. Io stavo radendomi, per cui non presi subito nota del nome dell’intervistato, ma ricordo bene che rispose: «Quello che serve di più in questo momento è pregare». Il giornalista rimase sorpreso, come me del resto, e gli chiese: «Ma lei non è ateo? Perché dice così?». Non ricordo la risposta alla lettera; il senso fu questo: «Anche gli atei possono pregare. Pensi che forza ci sarebbe in questo momento nel mondo, se, invece di parlare e di discutere tanto di pace, ci mettessimo tutti a invocare la pace!».
E proprio in quei giorni stavo leggendo il libro “Follia e santità” (BUR) di Vittorino Andreoli, il notissimo psichiatra, dichiaratamente non credente, e a pagina 333 trovo questo sorprendente paragrafo: «Che magnifica è la preghiera! Il potersi inginocchiare davanti a un Dio per dire che si è nulla e nello stesso tempo per esprimere la voglia almeno di essere un po’ migliori, dentro i propri compiti assunti, dentro i propri ruoli. Lo confesso: non ho un Dio davanti al quale inginocchiarmi, ma mi inginocchio lo stesso e prego un Dio che non c’è, che non c’è per me. Perché l’uomo ha bisogno di un Dio, altrimenti egli stesso crede di essere diventato dio e questa non è solo la fine di una dimensione celeste, ma è anche la tomba di ogni dimensione umana».
Ripensiamo anche solo alla luce di queste parole la forza di quelle tre ore di adorazione in piazza S. Pietro e alle mille e mille riunioni di preghiera in tutte le parti del mondo.
Ma in quei giorni nella memoria liturgica del Beato Guala, un bergamasco vescovo di Brescia ed infaticabile operatore di pace nel ‘200, nel breviario si leggeva un discorso di Paolo VI dove tra l’altro il Papa diceva: «La Pace prima di essere una politica, è uno spirito… si esprime, si forma, si afferma nelle coscienze, in quella filosofia di vita, che ciascuno deve procurare a se stesso». Poco prima aveva detto: «Sì, la pace è dovere dei capi. Ma non solo dei capi! Oggi la società, che si organizza democraticamente, attribuisce poteri e doveri a tutti i membri della comunità… Questo significa – conclude Paolo VI a utilità di noi credenti – che la Pace esige un’educazione. Lo affermiamo qui, all’altare di Cristo dove si celebra la S.Messa rievocatrice della Sua Parola e rinnovatrice in forma incruenta e sacramentale del suo sacrificio pacificatore del cielo con la terra; qui, come discepoli, sempre bisognosi di ascoltare, di apprendere, di ricominciare il tirocinio della trasformazione della nostra istintiva e pur troppo tradizionale mentalità».
Come si può pensare che la preghiera, il pregare, non serva alla costruzione della pace?
Se poi, come fa notare Paolo VI, la pace esige un’educazione, noi preti e tutti quelli che nella Chiesa svolgono una funzione educativa (genitori, catechisti, formatori), oltre al pregare e al far pregare per la pace, siamo impegnati a lavorare per creare a tutti livelli una mentalità religiosa di pace, comportamenti di condivisione, di solidarietà, di riconciliazione, insieme con la consapevolezza che con la nostra mentalità di pace, sempre come afferma Paolo VI, in una società organizzata democraticamente come la nostra, abbiamo anche il potere e il dovere di far pressione su coloro che hanno in mano le sorti dei popoli.
IL TUO PARERE
Qual è, sinceramente e concretamente, il nostro impegno per la pace?