Donne di valore

«È l’agire combinato di inattività e disoccupazione femminile a costituire l’anomalia del modello di partecipazione lavorativa delle donne italiane», chiarisce Alessandra Righi ricercatrice Istat, autrice del volume Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia – Anni 1998 – 2008 promosso dall’Ocse. Il risultato shock della ricerca è che il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Questo perché sono poche le donne che lavorano e quelle disoccupate si scoraggiano presto comportando «una dispersione rilevante di quote di capitale umano potenziale di un paese». Nel giorno della festa delle donne, mentre la politica continua a discutere sulla parità di genere e resta in stand-by fino a lunedì 10 marzo, quando alla Camera si dovrà votare sulla legge elettorale, l’Italicum, Righi ci ricorda che ci vorrà qualche decennio prima che siano adottate «politiche in grado di favorire una maggiore partecipazione delle donne al lavoro e di prolungarne la permanenza nell’occupazione».

Dottoressa Righi, nel volume da Lei curato risulta che la capacità di generare reddito di una donna nel nostro Paese sia stimata la metà di quella di un uomo (231mila euro contro 453mila nell’arco della vita). Com’è possibile questo?

«Lo studio intende dare un valore all’ammontare del capitale umano degli italiani e lo fa misurando la capacità delle persone in età attiva di generare reddito sia oggi sia nell’arco della sua vita. La forte differenza di genere è determinata, in primo luogo, dal minor numero di donne che lavorano nel nostro Paese (il tasso di occupazione femminile dal 2008 a oggi è pari al 50% contro l’oltre 72-73% di quello maschile), poi dal minore numero di anni che le donne lavorano in media nel corso della loro vita e, infine, dalle differenze di genere esistenti nella remunerazione. Il valore di cui parla lo studio esprime, quindi, il reddito atteso delle persone e non ha nulla a che vedere con il valore del contributo, in termini di impegno e di idee, che apportano all’economia e alla società le donne che lavorano che è pari o anche migliore di quello degli uomini».

È anche a causa di ciò che in Italia lo stipendio femminile è inferiore a quello maschile?

«No, le leggi dello Stato prevedono la parità di remunerazione tra uomini e donne, ma è vero che le donne lavorano in mansioni meno pagate e spesso per motivi familiari sono in grado di lavorare meno ore durante la giornata e così facendo non possono accedere a straordinari o ad altri premi di incentivazione».

La situazione in Europa sotto questo punto di vista com’è?

«Siamo il fanalino di coda dell’Europa secondo l’Ocse, infatti, la situazione è migliore per le donne in Francia, Norvegia, Paesi Bassi, Regno Unito e Spagna. Ma la quota di capitale umano delle donne supera il 40% solo in Polonia e Romania».

Chiara Saraceno, commentando i dati emersi dalla Sua ricerca-shock, ha scritto che «il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione». È d’accordo con la definizione della sociologa?

«Sì sono d’accordo, in effetti si tratta proprio di una vera e propria ricchezza del paese, al pari delle risorse naturali o del capitale fisico (fabbriche, miniere, ecc), che contribuisce al benessere complessivo della nazione».

Quando parliamo di “capitale umano”, termine recentemente rilanciato da un film diretto da Paolo Virzì, che cosa intendiamo dire?

«Come abbiamo detto, rappresenta la stima della capacità di generare reddito di ciascun individuo quando questo è nella condizione di produrlo».

In una Sua precedente intervista ha detto che «l’anomalia dell’Italia è la conferma della distanza profonda tra uomini e donne, nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Ci chiarisce la Sua riflessione?

«In realtà è l’agire combinato di inattività e disoccupazione femminile a costituire l’anomalia del modello di partecipazione lavorativa delle donne italiane. Sono poche quelle che lavorano e le disoccupate spesso si scoraggiano e abbandonano definitivamente le aspirazioni di poter trovare un ritorno economico all’investimento in istruzione e formazione che hanno le loro famiglie, o in prima persona. Ciò oltretutto comporta una dispersione rilevante di quote di capitale umano potenziale di un paese».

«Senza le doti della donna la vocazione umana non può essere realizzata» ha dichiarato recentemente Papa Francesco precisando che l’apporto del “genio femminile” nel lavoro e nella sfera pubblica è “importante” ma il ruolo della donna nella famiglia è “insostituibile”. Il Papa ricorda il contributo fondamentale della donna in ogni campo ma la politica, lo Stato sembra dimenticarsene. Cosa ne pensa?

«Sono d’accordo con le parole di Papa Francesco e lo studio realizzato cerca di misurare anche il valore del contributo dato dalle donne nell’ambito del lavoro domestico e del tempo libero. In questo caso vi è una netta prevalenza del capitale umano femminile, che è pari a 431 mila euro pro capite, contro i 384 mila degli uomini, ovvero il 12% in più».

Quali sono gli strumenti, a Suo parere, che occorrerebbe adottare per far si che anche da noi una donna possa valere sul mercato del lavoro alla pari di un uomo?

«Gli strumenti adatti sono politiche in grado di favorire una maggiore partecipazione delle donne al lavoro e di prolungarne la permanenza nell’occupazione potrebbero riequilibrare gli squilibri attuali. Ma ci vorrà qualche decennio».