Il senso del rito

Un grande storico delle religioni, Gerardus van der Leeuw, affermava che «un rito è la ripetizione di un frammento del tempo primordiale»: nel culto, esercitato secondo regole codificate, si rievocherebbe l’azione con cui una divinità ha dato origine al mondo o l’ha redento, salvandolo dal caos. Ma che cosa aggiungono o portano di nuovo, rispetto a questa “attitudine rituale” degli esseri umani, i gesti propri delle celebrazioni cristiane? E nella vita della Chiesa, la liturgia costituisce una componente accessoria, per quanto affascinante, o ha un ruolo centrale e irrinunciabile? «Celebrare per credere. La forma rituale della fede ecclesiale e la realizzazione simbolica dell’umano» è il titolo di un convegno di studi che si è svolto in questi giorni nell’aula magna Orlandi del Seminario di Bergamo, su iniziativa della Scuola di Teologia (il programma completo è pubblicato all’indirizzo Internet www.seminariobergamo.it). Tra i relatori, abbiamo posto alcune domande a don Doriano Locatelli, direttore dell’ufficio liturgico della diocesi; seguirà, nei prossimi giorni, un’intervista ad Andrea Grillo, docente di Teologia sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma e l’Istituto di Liturgia Pastorale “Santa Giustina” di Padova.

Insieme a Grillo, don Locatelli ha aperto il convegno con un’ampia relazione sul tema Dal Movimento liturgico alla Sacrosanctum Concilium. La storia di un ressourcement: «All’ideale di un ressourcement (di un “ritorno alle fonti” bibliche, patristiche e liturgiche) si richiamavano appunto diversi autori e uomini di Chiesa – egli spiega -, che già nell’Ottocento si proponevano di riflettere circa l’identità teologica della liturgia e la sua ricaduta pastorale».

L’idea era che si dovesse “guardare all’indietro” per poter muovere dei passi in avanti?
«L’operazione ha una sua logica, se si pensa che la questione liturgica riguarda sostanzialmente il senso di ciò che si compie nell’azione del rito, la sua “identità”. La ricerca dell’identità comporta inevitabilmente un’indagine approfondita sulla paternità: per sapere chi si è, occorre conoscere la propria origine. Proprio per questo motivo il movimento liturgico, nella sua fase iniziale, si è addentrato con particolare insistenza nelle vicende della storia passata. Certamente questo aspetto, tuttora attuale e necessario, può anche indurre a dei fraintendimenti: il fatto di aver ricostruito con esattezza filologica il contenuto di un antico documento liturgico non comporta automaticamente che si sia compreso come si celebrava in quell’epoca».

Anche nel campo della storia della liturgia vi è il rischio di coltivare una memoria solo “antiquaria” del passato?
«Indubbiamente, vi è il rischio di lasciarsi ammaliare dal “mito dell’antichità”. La conoscenza storica, in realtà, non mira a fissare il passato in una forma chiusa, ma si chiede il perché di ciò che è accaduto. Per tentare di comprendere quelle esperienze che, tra l’Otto e il Novecento, sono state accomunate sotto la denominazione “movimento liturgico”, occorre mettersi docilmente in ascolto di una domanda che ha saputo attendere, che non ha avuto subito la pretesa di trovare delle risposte. Bisogna intendere questa domanda come l’origine di un percorso, di un movimento all’interno della Chiesa, senza sentirsi subito in diritto-dovere di decidere se tale questione sia già stata risolta. Soprattutto, bisogna tenere presente che, nella storia della Chiesa, la continuità non coincide necessariamente con il mantenimento di forme passate, così come la discontinuità non equivale automaticamente a un tradimento della tradizione. Nell’Antico Testamento vi è un’“icona” che si presta bene a concretizzare il senso di questo mio discorso».

Di quale immagine si tratta?
«In Esodo 12, 24-27 si descrive il rito della Pasqua. Mosè rivolge queste parole agli Israeliti:   Voi osserverete questo comando come un rito fissato per te e per i tuoi figli per sempre. Quando poi sarete entrati nella terra che il Signore vi darà, come ha promesso, osserverete questo rito. Quando i vostri figli vi chiederanno: “Che significato ha per voi questo rito?”, voi direte loro: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case”. Nella Chiesa, la questione liturgica è stata l’affiorare, sulle labbra dei figli, di una domanda esigente a cui i padri debbono saper rispondere: che significato ha per voi questo rito? Ci si è interrogati sul senso di un rito che, col passare del tempo, minacciava di scadere nel ritualismo; era divenuto privo d’intelligenza, era ormai incapace di esibire un legame con la propria origine. La comunità ecclesiale rischiava di dimenticare la verità profonda espressa da Leone Magno in un suo sermone per il giorno dell’Ascensione: Quod conspicuum erat in Christo, transivit in Ecclesiae sacramenta (“Ciò che era visibile in Cristo, è passato nei sacramenti della Chiesa”)».

Quali sono stati, tra il XIX e il XX secolo, i maggiori protagonisti e i luoghi più rappresentativi del movimento liturgico?
«Nella mia relazione, mi sono soffermato su alcuni luoghi-simbolo e figure particolarmente autorevoli: l’abbazia benedettina di Solesmes, in Francia, con dom Prosper Guéranger (1805-1875); Malines, in Belgio, con dom Lambert Beaudoin (1873-1960); l’abbazia di Maria Laach, in Germania, con dom Odo Casel  (1886-1948) e con il teologo Romano Guardini (1885-1968). A Solesmes, il movimento liturgico sottolineò l’importanza del rito fissato, dove la fissità non è sinonimo di immobilismo, ma, al contrario, è garanzia di autenticità, sul presupposto che il rito sia costituito dapprima da un comandodel Signore, e si sviluppi poi in una tradizione ad opera degli uomini. Lo “spirito di Malines”, invece, portò a rimarcare la necessità di una partecipazione intelligente al rito da parte del popolo di Dio».

Concentrando l’attenzione sulla liturgia, non si finisce tuttavia per trascurare altri aspetti della vita cristiana? La dimensione attiva edell’impegno sociale, ad esempio?
«Ancor oggi, la liturgia non riesce ancora a scalfire il vecchio pregiudizio di chi la considera “materia per esperti”. Si riconosce, al massimo, che essa può interagire con la spiritualità, intercettando le istanze di conversione dei singoli e della comunità; ma non può pretendere di plasmare il tessuto sociale. La “sacrestia” e il “sagrato” non si incontrano, poiché entrambi hanno dimenticato di essere luoghi relativi all’aula liturgica. A Malines, tuttavia, soffiava un vento diverso. Nel 1909, la città fu sede del Congrès national des oeuvres catholiques: non si trattò  – è importante notarlo – di una riunione di liturgisti, ma di un convegno a cui presero parte le forze rappresentative del cattolicesimo sociale belga, sull’onda della celebre enciclica promulgata nel 1891 da Leone XIII, la Rerum novarum. In quell’occasione, si affermò con forza l’idea che l’intelligenza dei riti, una volta riscoperta, avrebbe consentito ai fedeli di entrare con maggior consapevolezza nella casa di Dio, ma anche nella città degli uomini. L’intelligibilità della liturgia le conferisce anche forza sul piano sociale».

In che modo la Sacrosantum Concilium – la Costituzione sulla liturgia del Vaticano II – ha raccolto l’eredità del movimento liturgico antecedente?  
«La costituzione conciliare ha raccolto almeno due istanze profondamente radicate nel movimento liturgico. In primo luogo ha recepito la necessità di ripensare lo statuto teologico della liturgia: in tal senso il primo capitolo di Sacrosanctum Concilium può ritenersi la magna charta dell’autentico spirito liturgico. In secondo luogo, il concilio ha restituito pregnanza alla dimensione rituale. La celebre espressione circa la possibilità di accedere al mistero di Cristo per ritus et preces (attraverso i riti e le preghiere) è il punto teorico di partenza per una rinnovata riscoperta della necessità di celebrare per credere».