Jacqueline Morineau: con una vera giustizia si può costruire la pace

È stato un incontro intenso quello di Jacqueline Morineau al Centro Congressi in via papa Giovanni XXIII, all’interno del Festival della Cultura di Bergamo. “La pace e la terra: le radici profonde di un nuovo modello di giustizia”, questo il tema. Una sala gremita l’ha accolta con attenzione dopo alcuni interventi altrettanto significativi. «Bisogna dare dignità culturale allo sforzo commovente di vita comune» . È Giuliano Zanchi, Segretario Generale della Fondazione Bernareggi a introdurre l’evento. «C’è un mondo che non ha confini sotto al termine “giustizia”, che va molto al di là della nostra piccola ideologia quotidiana per cui essa coincide con quella ordinaria di processi e tribunali».
Gherardo Colombo, ex magistrato e fondatore dell’associazione “Sulle regole”, ne è convinto. Ha smesso di fare il magistrato 14 anni prima dell’effettivo pensionamento, che per i magistrati avviene a 75 anni, e da quel momento non cessa il suo impegno di testimonianza civile nelle scuole. Racconta del suo percorso di giudice penale, durato 33 anni e conclusosi con la consapevolezza del pessimo funzionamento della giustizia italiana e con una nuova valutazione della stessa. «Pensavo che il carcere fosse educativo, invece ho capito che non lo è, anzi, è dannoso ed aiuta le persone che ci passano a perseverare nel loro intento e a non cambiare prospettiva». La giustizia nei tribunali è amministrazione, e fa male sia alle vittime che ai colpevoli. Il giusto, invece, è chi è capace di amore verso il prossimo e sa vedere nell’altro la dignità della persona, quella dignità che viene sottratta sia alle vittime che ai colpevoli. Splendide anche le due immagini della sociopsicologa Agnese Moro per descrivere la sua storia. Dopo l’assassinio del padre Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, si è ritrovata travolta da sentimenti contrastanti di disperazione e rancore, con il desiderio di una verità credibile, che ha dato il via a una vera e propria ricerca di giustizia. «Oggi sembra che la giustizia siano gli anni di galera che uno prende e che poi starà bene, ma non è così. È una grandissima mistificazione». La realtà è che sia le vittime che i colpevoli si portano dentro un grosso peso che non riescono a eliminare. «Una parte della tua vita è sempre lì, a quei momenti, ferma. Vivi una vita parziale». È come un elastico, e non si sa se tornerà mai indietro. La giustizia dovrebbe avere il compito di sciogliere l’elastico e di rigettare fuori il peso, creando un legame tra la vittima e chi ha commesso il reato. C’è bisogno di un incontro vero, umano, reale tra le due parti, «Perché anche il colpevole ha cercato giustizia…». Claudia Mazzuccato è professore aggregato di diritto penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e cerca di definire il termine “giustizia riparativa”, questo nuovo modello di giustizia appena accennato dalla Moro, complementare alla giustizia ordinaria. «È un fatto, uno scandalo, una promessa». Tiene a precisare che non è una teoria, ma un’esperienza mondiale. Esiste in Nuova Zelanda, in Sud Africa viene usata per risolvere i conflitti dell’apartheid, ma c’è anche in Austria, Germania, Francia, Belgio, Gran Bretagna… E a Bergamo, dove vi è un centro che offre un servizio gratuito gestito da volontari competenti. È riconosciuta dai massimi organi internazionali quali Nazioni Unite, Consiglio di Europa, Unione Europea. È uno scandalo perché è un incontro libero e volontario tra la vittima, le loro famiglie e i membri delle comunità colpite con il colpevole, il quale è disarmato. Mettere da parte la coercizione significa non relegare il colpevole a un ruolo passivo fare in modo che si attivi e si impegni nel processo di riparazione. La promessa è che reo e vittima partecipino insieme e, volendo, siano accompagnati dalle comunità, in cui «i mediatori siano dei “terzi miti e privi di potere”, e non un autorità dominante legittimata dal potere e dai soldi a punire, mettere manette, e privare della libertà con sbarre e muri», bensì un mezzo affinché la democrazia smetta – con questo sistema violento con il colpevole e scarsamente soddisfacente per la vittima – di somigliare al reato che cerca di combattere, e «cerchi invece di somigliare sempre di più a ciò che vuole affermare, ossia il diritto e i valori fondanti della Repubblica: uguaglianza, libertà, fratellanza, partecipazione diretta e diritti umani».
Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani carceri italiani e sacerdote della diocesi di Bergamo: «Il carcere serve a fermare il male e a nient’altro». Gesù Cristo chiede alla comunità cristiana di fare fruttificare il seme della riconciliazione anche nella società civile in cui è inserita. La buona novella deve portare a un’evangelizzazione, bisogna sfruttare ciò in cui si crede come strumento per la giustizia. «Dio vuol bene a tutti. La passione sulla Croce ci dice che Dio non ha bisogno della sofferenza degli uomini ma prende a cuore le loro fatiche per costruire qualcosa di buono per loro stessi e per gli altri».
E finalmente l’ospite d’onore: Jacqueline Morineau. Archeologa, deriva dal mondo antico, soprattutto quello greco, gli strumenti essenziali per sviluppare un progetto di intervento sociale molto originale. Accade nel 1984, quando suo figlio viene ucciso in un incidente stradale e non trova una risposta adeguata nella giustizia tradizionale. Fonda e dirige a Parigi il Cmfm – Centre de Médiation et de Formation à la Médiation, che attua il primo esperimento di mediazione penale per la procura del tribunale di Parigi. Il Cmfm ha effettuato ad oggi oltre 7000 mediazioni nei campi: penale, sociale, familiare, scolastico. Mediazione è soprattutto favorire un incontro. La figura del mediatore permette di far incontrare due individui a un livello superiore di quello della ragione o dei sentimenti e delle emozioni, in una dimensione diversa e più elevata: l’anima. Per Jacqueline nella nostra epoca abbiamo un po’ perso di vista l’importanza della spiritualità e molti di noi non credono nell’anima. Per lei è invece fondamentale e necessaria per ottenere giustizia. «Pace, giustizia, felicità devono essere unite». Per essere in pace e felici bisogna che ci sia anche la giustizia. Collegandosi alla Moro: se non c’è la possibilità di togliere la pietra allora la vita non vale la pena di essere vissuta. Per questo motivo ha avuto bisogno di “umanizzare la violenza”, ha conosciuto il grido di dolore e di smarrimento sia in prima persona come vittima e sia quello del colpevole. Queste grida erano grida di morte, perché non si trovava speranza, mentre bisogna dare espressione al grido. «Non si può risolvere tutto con la razionalità». La vita è drammatica, come sapevano bene i greci, e bisogna scandagliare i recessi più profondi dell’anima per potersi elevare alla risoluzione dei conflitti, al perdono e alla riparazione dei danni. Il processo di mediazione può essere paragonato a un dramma greco, dove ci sono danni e pene ma per espellere la violenza non si usa un capro espiatorio bensì un mediatore che cerca di esprimere le istanze delle due parti coinvolte. L’incontro si svolge in tre momenti: un primo momento dove si riconoscono le proprie differenze e ci si ascolta senza giudicare, poi ci si avvicina alla verità della situazione attraverso la vergogna e attraverso le proprie reciproche fragilità per poi riuscire a incontrarsi empaticamente come esseri umani dotati di un’anima e di stessi valori, quelli più alti e universali. Il punto decisivo è riuscire a instaurare un rapporto tra reo e vittima. Jacqueline Morineau, una vispa donna dai capelli grigi e un italiano dal forte accento francese, animata da una grande passione per i suoi progetti di formazione per mediatori penali che si stanno moltiplicando su tutto il globo. È lei a ricevere il Premio del Festival della Cultura 2014 intitolato proprio “Fare la pace: i confini del mondo e le speranze degli uomini”. Al calar della notte attorno alla sala, in una folla di applausi, si fa spazio con poche ultime, timide battute: «Grazie. Io sono tanto piccola e il premio è tanto grande e tanto pesante per la mia valigia. Vorrei regalare uno di questi fiori a ognuno di voi». Ha aperto l’incontro l’introduzione musicale di due allievi del conservatorio Donizetti: la soprano Ilaria Iris Facoetti e il trombone Giorgio Casirati.
La foto di Jacqueline Morineau è di Gian Vittorio Frau