Non in mio nome. A proposito di moschee e di crocifissi

Bergamo ha molti problemi ma per qualcuno uno solo è decisivo e richiede una lotta senza pari: impedire che una moschea venga costruita dentro il perimetro della città. A sostenere questa battaglia sono nuovi crociati e i loro appassionati coriferi che si candidano alfieri di un’identità cristiana minacciata da una nuova invasione musulmana, che arriva dopo quelle dei secoli scorsi.

La questione è complessa: negarlo è da ingenui, amplificarla, magari per ragioni politiche, è da irresponsabili. Una classe dirigente degna di questo nome deve però dire come – i problemi – intende risolverli, non solo agitarli. Pare di vivere invece una stagione dove, in nome della retorica della semplificazione, si fugge dalla complessità e si cavalcano le paure della gente che, in maggioranza, pare non volere minareti e moschee. Poco importa che molti dei paladini intransigenti della rimpianta civiltà cristiana si siano sposati con il rito celtico e innaffiato il sacro vischio nel Po. Quello che è certo lo ha ricordato tempo fa l’allora cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi. Di fronte ai furori identitari di chi richiamava le sacrosante radici cristiane ha ricordato che queste sono «importantissime», ma «il Signore ci giudica» soprattutto «dai fiori e dai frutti che queste radici realizzano e i fiori e frutti chiedono di essere confrontati con il Vangelo e, per parlare in termini laici, con la dignità personale di ogni essere umano».

COSA È IN GIOCO

Quello che è certo è che i temi all’ordine del giorno del dibattito politico e civile sono un segno dei tempi in cui viviamo che obbliga, ciascuno di noi, credente e non credente, a fare i conti con quello che il cardinale Scola, chiama, acutamente, il processo di «meticciato di civiltà e culture». Ciò che è in gioco, dunque, è più della presenza di moschee o di minareti. Per i cristiani è la fedeltà all’Evangelo in un mondo divenuto, in breve tempo, plurale per fedi e culture, accompagnata dalla denuncia di un uso strumentale dell’aggettivo “cristiano” a cui ricorrono disinvoltamente i politici di turno proprio mentre mettono in atto comportamenti poco evangelici. Il periodo storico che stiamo vivendo ci obbliga a discernere quanto la Parola di Dio chiede per il bene comune della città. La fede ci domanda di custodire il lievito della differenza evangelica; la cittadinanza responsabile ci rimanda a quel dettato costituzionale che dovrebbe orientare l’agire civile. In una democrazia costituzionale non è che chi vince le elezioni fa quello che vuole. Le Costituzioni sono sorte proprio per delimitare un preciso quadro giuridico a cui attenersi, pur nella dialettica delle diverse scelte operate dagli schieramenti politici. E tra i paletti fissati nella nostra Costituzione, vi è anche quello della libertà di culto. Per questo, la limitazione della possibilità di pregare in un luogo ufficiale corrisponde ad una limitazione “de facto” dell’accoglienza e quindi della libertà religiosa. Una volta nel nostro territorio nazionale gli immigrati sono persone da accogliere e i cui diritti fondamentali vanno difesi e rispettati. E tra questi diritti vi è, senza alcun dubbio, la libertà religiosa. La stessa che, giustamente, chiediamo a gran voce ai Paesi dove i cristiani rappresentano una piccola minoranza. Il fatto che la gente, come spesso si ripete, abbia paura, non significa che si debba per forza acconsentire con essa nell’identificare le origini di questa paura. Significa, invece, ragionarci sopra, e soprattutto ragionarci insieme: nel confronto serio delle posizioni, non solo con la ripetizione di slogan facili e popolari. Così non si costruisce una sana democrazia. Tanto meno una democrazia inclusiva. E ancor meno una città in cui è bello e piacevole vivere. Questo modo di porre i problemi complica la vita di tutti noi. E la rende meno sicura, non di più.

NON IN MIO NOME

Da ultimo, una richiesta. Ho rivisto in giro, per le strade, dei gazebo. Espongono ancora cartelli per la difesa del crocefisso (di legno). Sono gli stessi che votano per buttare a mare i crocefissi (in carne ed ossa). «Non in mio nome, non in mio nome!»: vorremmo dire loro. Del Dio di Gesù poco si può dire. L’unica cosa certa che ha sempre le sembianze dell’uomo. Specie di quanti fanno più fatica. Il resto non è Vangelo.