Mondiali di calcio. Se la preghiera non chiede vittoria ma aiuta nella sconfitta

I RITI “RELIGIOSI” DEI CALCIATORI

La religione prima di tutto, anche del riscaldamento muscolare e della discesa in campo. I calciatori di ogni grado e latitudine ci hanno ormai abituati, prima delle partite, a un intenso cerimoniale in bilico tra fede e superstizione: segni della croce ostentati, indici rivolti verso il cielo, braccia spalancate ad accompagnare pie invocazioni. Un vero e proprio rito propiziatorio – esibito a beneficio di telecamera – per chiedere al dio di turno il successo in campo.

LA PREGHIERA DOPO LA SCONFITTA

Qualcosa di diverso è successo giorni fa a Belo Horizonte, orizzonte in effetti bello per i tedeschi, un po’ meno per i padroni di casa del Brasile che si sono visti rifilare una sonora goleada. Può essere che, anche in questo caso, la gara sia stata preceduta dai consueti esercizi mistici; ma stavolta è al termine della partita, non prima, che si sono visti diversi giocatori brasiliani, lacrime agli occhi e volti da funerale, inginocchiarsi in campo e pregare dopo la tragica sconfitta. Fatto inedito ma eloquente.
Il rituale delle implorazioni preliminari è certamente cosa umana, molto umana: come lo studente prima di un esame, come il candidato prima di un’ elezione, anche il calciatore chiede al proprio dio di assisterlo in un momento cruciale. Ma è anche cosa troppo umana, perché lascia intendere una visione della religione un po’ egoistica, se non utilitaristica: una concezione che non considera, banalmente, che Dio possa anche avere altro a cui pensare (senza contare il piccolo dettaglio che accontentare tutti sarebbe impossibile: undici uomini sono comunque destinati all’insuccesso).
Al contrario, la preghiera dei verdeoro vinti nella loro terra, in un Paese che sperava di trovare nel trionfo calcistico una riscossa dai suoi gravi tormenti, colpisce perché ripropone un senso più autentico e disinteressato della preghiera. Che sia stata consolazione, lamento o riflessione, resta il fatto che, per una volta, a Dio i calciatori non hanno chiesto nulla. Quella preghiera ci restituisce così una sensazione di sincerità e insieme di profondità: l’idea di una preghiera che non sia il salvagente usa e getta cui aggrapparsi all’occorrenza, ma un momento di vera meditazione su se stessi.
Tanto più nelle sconfitte, quando accettare se stessi non è mai facile.