Medio Oriente, Eshkol Nevo: «Puntare lo sguardo sul futuro e sull’uomo è già una soluzione»

«Pensare al futuro è già offrire una mezza soluzione. L’immobilità del presente viene da un legame troppo stretto con il passato». Eshkol Nevo, scrittore israeliano, vive con dolore il conflitto di questi giorni: «un artista, in Israele, è costretto a misurarsi con una realtà che non va come vorrebbe». E sente la responsabilità di agire, attraverso la scrittura, che può, prima di tutto «riportare lo sguardo sull’uomo, distogliendolo dagli slogan e dalle manipolazioni».
Nel romanzo «Nostalgia» appena ripubblicato in una nuova traduzione da Neri Pozza, le mille anime di Israele e le sue contraddizioni si ritrovano nel “Castel”, un insieme indistinto di villette e baracche, di case e macerie, strade linde e vicoli fatiscenti. È là che vivono Amir e Noa, due studenti innamorati che provano a vivere insieme, tra mille difficoltà, in uno scalcinato bilocale e il loro padrone di casa Moshe Zakian, che ha quasi la stessa età, ma è già sposato e ha due bambini. Poi c’è il piccolo Yotam: la sua mamma piange sempre pensando al fratello maggiore morto in guerra in Libano, e lui si sente trascurato e triste. Non ci abita, ma vorrebbe tanto poterlo fare, il muratore arabo Saddiq: una volta lì c’era l’appartamento dove viveva con i suoi, ma i coloni ebrei lo hanno cacciato. Ora vorrebbe tornare. Ognuno dei personaggi di questo romanzo è preso dal desiderio di trovare il proprio posto nel mondo. Sullo sfondo, un Paese sconvolto dall’assassinio del Primo Ministro Yitzhak Rabin, nel 1995. Un romanzo insieme intimista e politico. Ne parliamo con l’autore.

Che cos’è per lei la «Nostalgia»?
«C’è qualcosa di ingannevole nel titolo italiano “Nostalgia” che non corrisponde esattamente alla parola ebraica che ho utilizzato. Nella mia lingua infatti a questo concetto corrispondono due parole, una con una connotazione positiva, mentre l’altra, “gaagua”, quella che io ho scelto, trasmette maggior sofferenza. In questa seconda parola c’è un desiderio molto forte di qualcosa di perduto. Il bambino del libro ha un grande desiderio di riabbracciare il fratello morto e di ottenere di nuovo la vicinanza dei genitori, che dopo la morte del fratello si sono allontanati da lui. Il protagonista palestinese anela alla casa della sua infanzia, la giovane coppia vorrebbe tornare al tempo in cui non viveva ancora insieme ed era più felice. Tutti desiderano e cercano in modo attivo qualcosa che non hanno più. Se posso usare una metafora che nel libro non esiste, mi viene in mente una persona seduta all’aeroporto che aspetta la sua valigia quando tutte le altre sono passate, e poi la insegue per traiettorie sconosciute dall’ufficio lost and found».

Nel suo romanzo si mescolano diversi livelli di lettura, quello più psicologico e intimista e quello più sociale e politico. Qual è il bisogno e l’urgenza da cui è partito?
«Ho provato a capire attraverso la scrittura perché la prima convivenza che ho avuto con una ragazza (molti anni fa) è finita con una separazione. Da questo fatto assolutamente personale e da alcune domande che ne sono venute, come che cos’è la casa e dove si trova la mia casa, sono partito a indagare conflitti sociali sulle quali mi interrogo da tempo. Per esempio la differenza tra la narrativa palestinese e la narrativa israeliana riguardo alla guerra del ’48, la religione, il ritorno alla religione e la resistenza al ritorno alla religione. La morte, il lutto, la perdita dei propri cari il prezzo che le guerre in Israele chiedono alle persone. Non ho una risposta ma esploro tutti questi aspetti attraverso la mia scrittura».

La storia di Saddik il muratore palestinese è rappresentativa di una situazione che molti come lui vivono nella realtà: essere cacciati dalla propria casa, l’esilio sia fisico sia psicologico. Come è nato questo personaggio, che ruolo ha per lei?
«Saddik è un personaggio che non avevo programmato. Stavo facendo delle ricerche sul posto in cui il libro si svolge e ho scoperto che c’erano i resti di un villaggio arabo. E’ stata una vera rivelazione. A quel punto ho pensato che non potevo sottrarmi all’obbligo morale di ripensare anche alla nostalgia di coloro che avevano lasciato lì le loro case. Ne è nata una storia del tipo che alla società israeliana ebraica non piace per niente sentir raccontare, quindi sono stato costretto a guardare sotto molti sassi, a guardare cose che in genere restano “coperte”. Sono molto contento che centinaia di migliaia di persone abbiano letto questa storia, da questo punto di vista molto personale. Oggi gli studenti studiano questa parte per la maturità».

Qual è per lei il rapporto tra letteratura e realtà, tra letteratura e sogno e speranza?
«C’è una situazione oggi, forse legata alla diffusione degli show in presa diretta in tv, per la quale si ritiene di dover sempre raccontare la realtà. A me invece interessa di più narrare cosa non è successo e cosa avrebbe potuto succedere. Nella letteratura tutto è permesso, anche quello che nella realtà non è possibile, è una specie di giardino dei giochi. Per esempio in Neuland ho costruito una nuova terra, un’alternativa a Israele in Sudamerica, nella letteratura si può avere una storia d’amore fuori dal matrimonio, perciò la letteratura è più provocatoria della realtà».

Lei parla di guerra, anche se in modo intimista. Qual è la sua posizione sul conflitto in Medioriente e qual è il ruolo che può avere uno scrittore?
Non voglio scivolare in facili clichet ma effettivamente un artista in Israele deve affrontare la questione di come usare lo strumento che ha a disposizione (nel mio caso la scrittura) in una realtà che non apprezza, che non funziona come lui vorrebbe. Io stesso sto ancora cercando la mia strada ma di certo ritengo che ci siano alcune cose che i libri possono fare. Prima di tutto centrare lo sguardo sull’uomo, distogliendolo dagli slogan, dalle manipolazioni e dalle frasi fatte. E poi riportare l’attenzione sul futuro, chiedendosi in quale direzione vogliamo che vadano le persone e il nostro Paese. Parlare di futuro è già come offrire una mezza soluzione. A mio parere infatti l’incapacità di andare oltre e l’immobilità in cui ci troviamo da molto tempo sono dovuti al fatto che siamo troppo legati al passato.

Qual è il ruolo delle grandi religioni in questa situazione a suo parere? Gesti come la visita del Papa e il segnale di pace che ha voluto dare con l’incontro di preghiera in Vaticano daranno dei frutti, nonostante tutto?
«In Medioriente le personalità religiose ebraiche e musulmane spesso non agiscono in favore della pace, anzi, hanno un ruolo attivo nel provocare l’estremizzazione di una situazione. Il cristianesimo ha momenti oscuri nel suo passato riguardo a questo tema, ma ritengo che in questo momento il Papa invece in questo momento stia cercando di fare proprio questo, offrendo un esempio che tutti i religiosi e i credenti dovrebbero seguire: cercare con insistenza la pace».

La relazione con la rete e il linguaggio del web contaminano in qualche modo il suo modo di scrivere e il suo rapporto con la letteratura?
«La tecnologia entra per forza nella scrittura. Ci offre un modo diverso per tenersi in contatto. Non a caso il mio libro Neuland inizia con uno scambio di mail. Ripenso ai miei anni da soldato tra il 1989 e il 1993: se avessi avuto un collegamento internet allora la mia vita sarebbe stata del tutto diversa, in quel momento mi avrebbe salvato. Non penso che la tecnologia sia la fine della cultura, come molti temono, anzi. Ci porta molti stimoli nuovi e diversi. Una volta mi si è rotto il telefono e il mio gestore telefonico mi ha fornito un apparecchio sostitutivo. Quando l’ho acceso c’era ancora un sms della persona che l’aveva utilizzato prima di me che diceva “la condizione è un gelato alla vaniglia e cioccolato”. Questo messaggio diventerà una storia».