Il romanzo noir Tavecchio e il calcio. Seconda puntata

Chiedo scusa. Avevo dato per scontata l’abbastanza rapida decadenza di Carlo Tavecchio – per ovvii motivi – dalla candidatura a presidente della Federcalcio. Invece sono inutilmente trascorsi diversi giorni. Il coriaceo comasco, al quale sarebbe richiesto il nobile gesto di ritirarsi, non ci pensa neppure, difeso com’è dai suoi imperturbabili mandanti. Normale, a pensarci bene: lui non potrebbe rappresentare meglio il dinosauro italiano in versione originale, quello che non se ne va mai. Prima o poi dovrà cedere, intendiamoci. Mentre scriviamo, giovedì 31 luglio, il presidente del Coni, Malagò, l’incontra e magari gli dirà d’arretrare. Ma intanto la resistenza continua. E ottiene lo scopo di dimostrare quanto i tempi di reazione italiani siano ancora lenti.

GALLIANI E AMICI: GLI AFFARI ALL’OMBRA DEL CALCIO

Allora riavvolgiamo il nastro. «Dànno a Tavecchio del razzista, ma non lo è», parola di Galliani, fra i grandi elettori uno dei più convinti nonostante il casino scatenatosi. Va bene, d’accordo. Se lo dice Galliani…Il suo conterraneo Tavecchio non è razzista. Ma – ammesso e non concesso (i dubbi persistono, derivando dalla triste spontaneità della dichiarazione) – il punto non è affatto questo. Il problema è la lampante inadeguatezza del personaggio, anche solo a causa di una clamorosa approssimazione nel linguaggio. Volendo un’ulteriore prova, basta guardare la recente intervista a Report sul calcio femminile: una gaffe dietro l’altra, ma sempre con naturalezza, come se dire certe cose costituisca il suo reale bagaglio chiamiamolo culturale.

Concetti già espressi. In quale lingua bisogna spiegarlo che l’incompatibilità di Tavecchio con un ruolo istituzionale costantemente sotto i riflettori, data la popolarità del calcio, non può che essere fuori discussione? Ma i vari Lotito, Galliani, Zamparini, Pozzo, Preziosi non vogliono capire. Perché? Che il calcio non sia più uno sport, bensì il recinto dentro al quale gli addetti ai lavori realizzano i propri affari è già stato denunciato, senza alcun esito. Ora i padroni del vapore vogliono giocare la partita delle multiproprietà. Lotito, Lazio e Salernitana. Pozzo, Udinese, Granada (Liga) e Watford (serie B inglese). Qualcosa esiste già. Il redditizio progetto è d’allargarsi, in pieno regime di conflitto d’interessi.

Prima di prendere la Lazio, Lotito aveva una florida impresa di pulizie. Zamparini è passato dal Venezia al Palermo per organizzare in Sicilia una catena di centri commerciali. Tutta gente che ha scoperto all’improvviso fuorigioco e calcio d’angolo. Al vertice della piramide mica serve uno di personalità. Ecco perché Carletto Tavecchio è perfetto, con la prospettiva di privilegiare esclusivamente il lato imprenditoriale ai danni di quello sportivo.

E L’ATALANTA? TACE

L’Atalanta tace, nell’interesse dei risultati della squadra. Silenzio assordante e scelta opportunistica. Percassi aderisce allo schieramento che sostiene Tavecchio, ma non s’è speso – né lui, ne il figlio Luca, amministratore delegato, né Marino, il direttore – in una difesa esplicita. Significa che nel Palazzo, se vuoi star tranquillo, devi saper vivere. Da uomini di mondo,come suol dirsi.

Sicchè tocca tornare ai dinosauri. Da soli non se ne vanno, complici i lenti tempi di reazione italiani di cui sopra. Proprio l’indifferenza dell’opinione pubblica sta sconcertando l’americano Pallotta, da un anno proprietario della Roma, che, con la Juventus di Agnelli, è contraria sin dall’inizio alla soluzione Tavecchio. All’estero l’Italia proprio non la capiscono. Se davvero si punta a un rinnovamento reale, bisogna creare le condizione per fare piazza pulita, a costo d’entrare a gamba tesa. Tocca sempre all’azionista di maggioranza. Nel calcio, né Galliani, né Lotito, ma – appunto – il presidente del Coni, Malagò.