Se due anziani sposi narrano il Cantico al Sinodo

Immagine: Marc Chagall, Il Cantico dei Cantici

Otto brevi capitoletti, 117 versetti, 1250 parole, una volta sola il nome di Dio e quasi per allusione, certo non da protagonista: questo è il Cantico dei Cantici, in ebraico Shir ha-shirim, cioè il “Canto per eccellenza”, il “canto sublime” dell’amore e della vita. L’unico dei libri della Bibbia di argomento amoroso, spesso esplicitamente erotico. Perfino imbarazzante per le anime pie. Che a lungo hanno ragionato e discusso in ordine alla sua canonicità. Al punto che Kenan, il più celebre esegeta “razionalista” dell’Ottocento, era convinto che il Cantico dei cantici fosse scivolato nel Canone delle S. Scritture solo a causa di un «moment d’oubli», di un attimo di distrazione dei pii teologi ebrei. «Le nudità frementi, i piaceri segreti, le bevande inebrianti, le sorgenti nascoste, le vegetazioni lussureggianti, i venti carichi di aromi e di sensualità che striano i versetti di questo poemetto biblico, avrebbero accecato quei vecchi sapienti, come era accaduto (Daniele 13) in un caldo pomeriggio ai due anziani ebrei abbagliati dallo splendore della pelle di Susanna al bagno». (Ravasi)

«Mi baci coi baci della sua bocca! / Sì, più inebrianti del vino sono le sue carezze, / più inebrianti dell’esalare dei suoi profumi! / Profumo che si effonde è il tuo nome…attirami a te, corriamo! / Il re mi introduca nella sua alcova / … per assaporare le tue carezze più del vino.

Non è un caso che Chagall abbia dipinto le cinque tele del Cantico – presenti nello splendido Museo Biblico di Nizza – in rosso, colore dell’amore passionale, colore del sangue in cui scorre la vita, colore dei veli che proteggevano la torà. Il rosso è il cantus firmus, il tema musicale dominante che avvolge lo sviluppo cromatico dell’intera melodia. Un libro che è un vero e proprio alfabeto colorato dell’amore e, insieme, come acutamente annota Erri De Luca «il libro sacro che ha più spargimento di aromi: vigne, mele, mandragore, nardo, mirra, manciate di hennè, incenso, olio, latte, miele, narciso, giglio, croco, cannella, cinnamomo, aloe, profumi aizzati dai venti, di certo non li ho citati tutti». Un libro di cui Rabbi ‘Aqiva, il grande mistico ebreo del II secolo d.C., disse che «l’eternità intera non vale tanto quanto il giorno in cui il Cantico dei Cantici fu dato a Israele. Si, tutti gli scritti sono santi, ma il Cantico è il più santo».

UNA SESSUALITÀ GIOIOSA

Nel corso della storia molte sono state le interpretazioni del libro. La Bibbia di Gerusalemme si spinge a scrivere che «non esiste libro dell’Antico Testamento di cui siano state proposte interpretazioni più divergenti». Da quelle tipologiche e allegoriche (l’amore tra Dio e il suo popolo, l’amore tra Cristo e la Chiesa) a quelle mistiche e spirituali che vedono la sposa, la donna, l’amata, innamorata, come l’anima, e l’amato come Dio. Noi continuiamo a vedere nel testo una straordinaria “modernità”: il canto dell’amore profano, che vale per se stesso; il valore del corpo («La verità dell’amore proclamato nel Cantico dei cantici non può essere separata dal “linguaggio del corpo”», Giovanni Paolo II) e del piacere, troppo a lungo negato dalla tradizione cristiana; la sessualità, gioiosa!, intesa come comunicazione e comunione interpersonale; il senso della ricerca, mai conclusa, e della relazione che ha in sé la modalità irriducibile del faccia a faccia come dialogo: io e tu, l’uomo e la donna, il maschile e il femminile; l’intreccio tra l’essere poesia altissima dell’amore umano ed insieme una parabola dell’amore divino. Lo aveva capito dal carcere di Tegel Dietrich Bonhoeffer: «Vorrei leggere il libro come un cantico d’amore terreno. Probabilmente questa è la migliore interpretazione “cristologica”». In una lettera scrive cosi: «(…) Non si può veramente pensare amore più caldo, sensuale ardente di quello di cui parla il Cantico dei Cantici (cf 7,6!); è davvero una bella cosa che appartenga alla Bibbia, alla faccia di tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?)». E in quella del 18 dicembre 1943 «Credo che dobbiamo amare Dio e avere fiducia in lui nella nostra vita e nel bene che ci dà, in una maniera tale che quando arriva il momento – ma veramente solo allora – andiamo a lui ugualmente con amore, fiducia e gioia. Ma – per dirla chiaramente – che un uomo nelle braccia di sua moglie debba avere nostalgia dell’aldilà, è a dir poco una mancanza di gusto e comunque non la volontà di Dio. Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente in ciò che egli ci dà; se a Dio piace di farci provare una travolgente felicità terrena non bisogna essere più pii di lui e guastare questa felicità con idee tracotanti e pretese provocatorie e con una fantasia religiosa incontrollata incapace di accontentarsi di ciò che Dio dà».

UNA TEOLOGIA NARRATIVA CHE PARTE DALLA CARNE E DALLA VITA

Il Cantico e la rilettura di Bonhoeffer mi sono tornate in mente quando, nei giorni scorsi, ho letto il testo dell’intervento di una coppia che in queste settimane partecipa al Sinodo. Sono gli australiani Ron e Mavis Paul. Con finezza hanno riletto, con coraggio e franchezza la loro vicenda matrimoniale. Una teologia narrativa della sessualità comune a tantissime coppie cristiane che non sempre ha trovato udienza e valore dentro le nostre comunità cristiane preoccupate più di stabilire il perimetro del lecito che di riconoscere la corporeità come il modo attraverso il quale il cristiano abita e santifica il mondo.
«Cinquantacinque anni fa, attraversavo una stanza e vidi una ragazza bellissima. Cominciammo a conoscerci a vicenda e alla fine arrivammo al passo di prometterci vicendevolmente l’un l’altra nel matrimonio. Ci accorgemmo subito che vivere la nostra nuova vita insieme sarebbe stato straordinariamente complesso. Come in tutti i matrimoni abbiamo vissuto momenti meravigliosi insieme, ma anche momenti di rabbia, di frustrazione e lacrime e anche la paura assillante di un matrimonio fallito. Eppure eccoci qui, sposati da 55 anni e ancora innamorati. Si tratta certamente di un mistero. Quell’attrazione che abbiamo provato la prima volta e la forza che ha continuato a tenerci abbracciati era essenzialmente di natura sessuale. Le piccole cose che ciascuno ha fatto per l’altro, le telefonate e i bigliettini, il modo in cui abbiamo programmato le nostre giornate e le cose che abbiamo condiviso sono state espressioni esteriori del nostro desiderio di intimità reciproca.
(…) La fede in Gesù è stata importante per noi. Siamo sempre andati a Messa insieme e abbiamo guardato alla Chiesa come a una guida. Di tanto in tanto abbiamo preso in mano i documenti della Chiesa, ma ci è sembrato venissero da un altro pianeta per il loro linguaggio difficile e così poco vicino alla nostra esperienza personale. (..) A poco a poco ci siamo resi conto che l’unico tratto che distingue la nostra relazione sacramentale da qualsiasi altra buona relazione che ha il suo il centro in Cristo è l’intimità sessuale e che il matrimonio è un sacramento della sessualità che trova la sua più piena espressione nel rapporto sessuale. Siamo convinti che fino a quando le coppie sposate non riusciranno a vedere nell’unione sessuale una parte essenziale della propria spiritualità sarà molto difficile apprezzare la bellezza di insegnamenti come quelli dell’Humanae Vitae. Abbiamo bisogno di nuove strade e linguaggi credibili per toccare il cuore delle persone».
Due sposi anziani che con il loro intervento hanno fatto una cosa elementare: intrecciare il sacramento del matrimonio alla sessualità. Una storia antica che abbiamo da troppo tempo dimenticato. Facendo male al sacramento, che non è qualcosa di aggiunto e di posticcio ad una realtà umana in sé carente e peccaminosa.
Facendo male alla sessualità. Che resta cosa buona e bella.