Faccia a faccia con il limite ultimo. Un’esperienza drammatica

Il nostro collaboratore Giovanni Cominelli ha affrontato, nelle settimane scorse, una  situazione di pericolo di vita, a seguito di un intervento chirurgico. Gli abbiamo chiesto di riandare, per noi, a quei momenti e ai possibili significati di quella imprevista, drammatica “avventura”.

La camera di rianimazione è un luogo d’incontro privilegiato tra due mondi: “l’al di qua” e “l’al di là”; è “un punto di intersezione del senza tempo con il tempo” (Th.S. Eliot). Chi entra in quella stanza non sempre ritorna. Perciò va frequentata raramente. Il primo impatto, al risveglio dall’anestesia, è un fascio di luce gelida, prodotta da decine di lampade al neon, che ti invade le pupille e le annienta. Gelida, perché la temperatura-ambiente è tenuta molto bassa, le funzioni vitali, d’altronde, sono tenute al minimo. Ho pensato alle testimonianze, amplificate dalla letteratura new age, di chi “ritorna” da un’esperienza dall’al di là: molti dichiarano di avere sperimentato una gran luce. Sì, ma del Paradiso o dei neon?

Poi, a poco a poco, man mano ci si risveglia, affiorano alla coscienza i dolori del mondo. Immobilizzato, avvolto in una rete di cateteri, drenaggi, sonde, flebo, il corpo è diventato il terminale biologico di macchine, che vivono al suo posto e battono implacabili il ritmo del cuore, con un perenne ronzio meccanico. Devo essere finito sul set di Alien. Un corpo steso accanto ad altri corpi doloranti, che implorano la fine del dolore o della vita: preghiere e urla di di sofferenza, grida ed emissioni di suoni strozzati, non solo orali…

A un certo punto, compare un prete con la stola viola. No, non viene da me! Si avvicina al letto di una giovane donna. Sì, sei sul confine, tra la corporeità vivente (il Leib, direbbe Husserl) e il corpo fisico-chimico (il Körper), sul crinale tra rinascita o decomposizione, tra la storia degli uomini e un buio tunnel fisico-chimico. Il cervello sta murato, lì dentro. A qualcuno è rimasto solo il movimento delle palpebre per restare in contatto con il mondo: un battito di ciglia per rispondere “Sì”, due battiti per rispondere “No”, finchè la mente non venga sopraffatta dal determinismo dei meccanismi bio-chimici. Il cervello murato è amaramente solitario, ma lucido. Non ho ancora scambiato mia moglie per un cappello, come suona il titolo del fortunato saggio neurologico di Oliver Sacks del 1985. Tanto lucido quanto basta per lanciare un fascio-laser sulla tua condizione e su quella altrui, dentro e fuori di lì: insomma, sulla condizione umana.In quel letto sperimenti la finitudine, la dipendenza, la polvere della tua vita, il niente che nientifica, l’essere-per-la-morte. Maledetto Heidegger!

Dipendi da tutti: dall’infermiera extracomunitaria, che fa fatica a comprendere le richieste di aiuto formulate in rigoroso dialetto brianzolo dal vicino di letto, quando urla di sentire un feroce dolore al “cüü”, ma non è “il grido di dolore”, cui rispose generosamente Vittorio Emanuele II – un suono simile in tedesco significa “fresco”; dalla sonda che tormenta la mia gola; da litri di flebo; dalla clip attaccata al dito, che rassicura visivamente sulla regolarità del battito cardiaco. Così, basta un piccolo movimento involontario della mano per staccarla, la sinusoide elettronica improvvisamente diventa piatta, suonano subitanei gli allarmi. Chiedo con curiosità scientifica alla bionda infermiera polacca, che accorre: sono già morto? Perché a me pare di essere vivo. Oppure lei è un angelo? Un’iconografia melensa li dipinge come individui dal sesso incerto, dotati di ali – e lei non le ha, mi pare – e con un viso grazioso, circonfuso di capelli biondissimi – e questo lei ce l’ha -… La risposta è secca e spiritosa: “non si illuda, lei è ancora qui, in questa valle di lacrime”. Non so se rispondere “meno male” o “purtroppo”…

Il viaggio è durato solo un giorno. Sono stato restituito al mondo quotidiano: al volto delle persone amate e sotto choc, ai filosofi della mia biblioteca, che da duemila e cinquecento anni – Parmenide è nato nel 515/510 a. C. – si pongono sempre la stessa domanda: “perché l’essere piuttosto che il nulla?”, alla tartaruga che continua a passeggiare in giardino e mi lancia uno sguardo beffardo, consapevole del fatto che la sua vita media attesa è di centocinquant’anni, al filobus che sfreccia da sempre sotto casa, alle opere e i giorni che passano, ai colori del cielo e ai sapori del cibo, al cellulare onnipresente e invasivo, alla Rete, alla politica, alla scrittura…,insomma: al gran guazzabuglio che è il mondo. Sì, ma se tu non fossi tornato? Niente paura! Solo un po’ di trambusto e di lutto nella cerchia ristretta dei tuoi affetti più intimi. Ma tutto il resto, come prima: Parmenide, la tartaruga, il filobus,il migrare dei giorni, la Rete, la politica… Mi spiace fartelo notare: sei solo un’increspatura passeggera sull’oceano dell’Essere. Ti resta, qui e ora, la densità del presente, solo questo è “carico di grazia”. E’ un happy end? Non pare. Ma è ciò che siamo.