Tradizione o tradizionalismo? Le critiche a Papa Francesco e i cambiamenti nella Chiesa

Uno degli effetti del pontificato di papa Francesco è certamente il rilancio, da parte dei suoi sempre più scomposti detrattori, del concetto di “tradizione”. Per questi – un giro sui loro siti è sempre istruttivo – la tradizione è qualcosa di immutabile che la Chiesa custodisce e trasmette senza alcuna variazione, mettendola al riparo dal subdolo e pericoloso tempo presente. Assumono cioè lo stesso meccanismo difensivo che li ha portati a leggere il Concilio Vaticano II solo nella misura in cui confermava ciò che lo aveva preceduto: Sacrosanctum concilium buona solo in quanto ripete Mediator Dei, Dei Verbum se conferma Divino afflante Spiritu, Dignitatis humanae se non contraddice il magistero ottocentesco sulla libertà religiosa… A tutti questi, e non sono pochi, suggerisco la lettura di un articolo di Gianni Gennari pubblicato in parte dal “Corriere della Sera” (e integrale su www.finesettimana.org).
Gennari, il Rosso Malpelo di Avvenire, riassumendo il dibattito sulla posizione della Chiesa sul tema della regolazione delle nascite ricorda come fino al 1951 anche il solo pensiero di usare i metodi detti naturali era considerato colpa grave, peccato mortale. Nel 1931 la Casti Connubii di Pio XI era decisiva e netta: nessun metodo, e per nessuna ragione, anche quelli detti naturali! Allora si parlava dell’Ogino Knaus

DOGMA DI FEDE SENZA BASI. PAROLA DI WOJTYLA

Ho trovato però molto interessante un altro tema toccato da Gennari. Giovanni Paolo II, durante una delle sue catechesi sul corpo, sulla sessualità, ha dichiarato senza basi nella parola di Cristo qualcosa che era detto “dogma di fede” definito dal Concilio di Trento e dichiarato tale anche ai numeri 21 e 28 della Sacra Virginitas di Pio XII, del 1954. Eccone il n. 21: «Secondo l’insegnamento della Chiesa la santa verginità supera in eccellenza il matrimonio». Più chiaro ancora formalmente e solennemente nel n. 28 che cita anche l’ “anatema sit” del Concilio di Trento su chi affermava che «la verginità non è superiore al matrimonio»: «La dottrina che stabilisce l’eccellenza e superiorità della verginità e del celibato sul matrimonio, come già dicemmo, annunciata dal Divin Redentore e dall’Apostolo delle genti, fu solennemente definita dogma di fede nel Concilio di Trento (Sess. XXIV can. 10) e sempre concordemente insegnata dai Santi Padri e dai Dottori della Chiesa». Una dottrina con tante ragioni di secoli, e al fondo il fatto che la realtà della sessualità, anche per eredità del pensiero greco e latino, trasmessa alla cultura dei cristiani e magari rafforzata da illustri Padri della Chiesa e maestri della teologia specialmente cattolica era come tale considerata qualcosa di inferiore e “concessa” ai laici, il “secondo genere dei cristiani” rispetto al primo, quello dei “chierici” e delle “vergini”, inferiore come dignità e onore, cui “era permesso il matrimonio”, quasi per necessità che sarebbe stato meglio non incontrare…
Ricorda invece Gennari che proprio specificamente su questo punto centrale Giovanni Paolo II ha esplicitamente negato che questa posizione abbia fondamento nella fede come tale. Questo sia da teologo, da vescovo, da cardinale e poi anche da Papa. Ecco, solo come esempio, quanto detto nell’Udienza del 14 aprile 1982: «Nelle parole di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli” non c’è alcun cenno circa la “inferiorità” del matrimonio riguardo al “corpo”, ossia riguardo all’essenza del matrimonio, consistente nel fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da divenire una “sola carne” (cfr. Gn 2,24). Le parole di Cristo riportate in Matteo 19,11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7) non forniscono motivo per sostenere né l'”inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato, in quanto questi per la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione” coniugale “nel corpo”. (…) Su questo punto le parole di Cristo sono decisamente limpide. (…) Il matrimonio e la continenza né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei “perfetti” a causa della continenza e degli “imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della vita coniugale). (…) Non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi (o le nubili), solo a motivo della continenza costituirebbero la classe dei “perfetti”, e, al contrario, le persone sposate costituirebbero la classe dei “non perfetti” (o dei “meno perfetti”)».
Gennari si spinge ancora più in là. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (“status perfectionis”), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo alla perfezione («Se vuoi essere perfetto…» (Mt 19,21). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misurata col metro della carità. Ne segue che una persona che non viva nello “stato di perfezione” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di vita sui voti di povertà, castità ed obbedienza), ossia che non viva in un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può raggiungere “de facto” un grado superiore di perfezione – la cui misura è la carità – rispetto alla persona che viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di carità.

LE  ROTTURE INSTAURATRICI

Insomma, che piaccia o meno, certe dottrine,anche importanti, sono cambiate. E, dunque, altre possono cambiare. Servirà ragionare, dialogare, discutere, magari anche dividersi. Ma con una certezza: come sosteneva il grande (e dimenticato) gesuita francese, Michel de Certeau, la tradizione del vangelo non si attua nelle chiese secondo il paradigma della ripetizione, ma piuttosto della riforma, delle “rotture instauratrici”, del recupero di ricchezza come appello del futuro secondo Dio che la tradizione del Vangelo contiene. L’autentico processo di tradizione è insieme fedeltà e rinnovamento: la prima chiede il secondo e reciprocamente. Questo processo non funziona primariamente attraverso eliminazioni e aggiunte, ma piuttosto riportando ogni aspetto della propria tradizione al suo centro, Gesù Signore secondo la testimonianza apostolica, e lasciandolo misurare da esso.