Le fedi dividono se non si appassionano per l’uomo

Foto: Lo scrittore Primo Levi

Un anno prima di morire, Primo Levi diede alle stampe il suo ultimo libro, “I sommersi e i salvati” (Einaudi 1986), una rilettura, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione di “Se questo è un uomo”, della sua devastante esperienza ad Auschwitz-Birkenau.

Nel libro, Levi scrive di aver ricevuto, nel 1962, una lettera del dottor T.H. di Amburgo in cui, tra le altre “goffaggini”, l’autore ricorre al “demonio” per rendere comprensibile l’orrore della Shoah: «In ogni tempo è avvenuto che il diavolo si scatenasse, senza ritegno, senza senso: persecuzioni di ebrei e di cristiani, sterminio di popoli interi in Sud America, degli indiani nel Nord America…orrende persecuzioni e massacri nel corso delle rivoluzioni francese e russa». A questa lettera, probabilmente all’insaputa del marito, Frau H. aveva aggiunto alcune laconiche righe nelle quali si ribadiva di nuovo la tesi del demonio: «Quando un popolo riconosce troppo tardi di essere diventato un prigioniero del diavolo, ne seguono alcune alterazioni psichiche». Levi risponde subito con una lettera, «forse la sola iraconda che io abbia mai scritto»: «Che nessuna Chiesa ha indulgenza per chi segue il Diavolo, né ammette a giustificazione l’attribuire al Diavolo le proprie colpe. Che di colpe ed errori si deve rispondere in proprio, altrimenti ogni traccia di civiltà sparirebbe dalla faccia della terra, come infatti era sparita nel Terzo Reich» (p. 146).

Lo aveva capito bene don Lorenzo Milani nella Lettera che scrisse ai Giudici durante il processo intentatogli da alcuni cappellani militari: «A dar retta ai teorici dell’obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell’assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

LE FEDI DIVIDONO?

I due testi, di Levi e don Milani, mi sono venuti in mente in questi giorni quando è ripartito, con grandi enfasi, il refrain caro a molti: le fedi come elemento di divisione. Non solo l’Islam, visto e interpretato unicamente sotto le lenti deformate di un manipolo di assassini che ne deturpano il volto più autentico, ma anche le altre. Lo aveva già rilevato, pochi mesi fa, un’inchiesta dell’istituto demoscopico SWG che aveva posto a mille soggetti maggiorenni questa domanda: «Le religioni sono capaci di unire e portare la pace o piuttosto tendono a dividere i popoli?». Il 52% ha risposto di ritenere le religioni responsabili delle divisioni. E dunque – sostengono in tanti – il mondo prossimo se vorrà essere sotto il segno della pace dovrà fare a meno delle religioni.

LA SFIDA DELL’UMANO

È urgente quindi che le fedi, tutte le fedi, assumano la sfida dell’umano. Sono capaci cioè di offrire all’uomo un modo di vivere che funziona? Un modo di parlare di Dio che da forma ad una vita piena e autentica? Non ci stancheremo mai di ripeterlo: le questioni di Dio e dell’uomo sono indissociabilmente legate tra loro. La loro missione ha possibilità di essere efficace solo se si esprime come testimonianza libera e rispettosa dell’assoluta gratuità nella passione per l’uomo.
In questo senso, ogni credente ha la responsabilità di raccontare attraverso la propria vita la verità della propria fede. Sentendosi, nel mondo, responsabili di Dio. Costi quel che costi. È l’intuizione, straordinaria, di Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz nel 1943: «Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi ad esserlo verso di lui. So quel che ci può ancora succedere. Adesso io sono separata dai miei genitori e non li posso raggiungere anche se si trovano a due ore di viaggio da qui: ma so esattamente in che casa abitano, so che non patiscono la fame e che sono circondati da molte persone ben disposte verso di loro. E anche loro sanno dove sto io. Ma potrà venire un tempo in cui non saprò più niente, e i miei genitori saranno deportati e moriranno miseramente, chissà dove: so che può succedere. Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per il Drenthe. E, secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto».