Israele. Padre Bruno Hussar, fondatore di Nevé Shalom

Foto: una veduta del villaggio di Nevè Shalom Wahat al-Salam

Ci sono accademie in cui da sempre si insegna l’arte della guerra. Non c’è però una scuola dove si apprende a costruire la pace. Succede invece che in Israele, terra lacerata da odi atavici, esista un villaggio dove si mostra che la coesistenza tra arabi e israeliani è possibile e che si può imparare a camminare sulle vie della pace e della riconciliazione. Il villaggio si chiama Nevè Shalom Wahat al-Salam e li vivono insieme ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana. Equidistante da Gerusalemme e da Tel Aviv Nevé Shalom Wahat al-Salam è stato fondato nel 1972: cinque anni dopo vi si insediò la prima famiglia. Nel 1999 le famiglie residenti erano 30; oggigiorno sono sessanta e i progetti di espansione prevedono la crescita dell’insediamento sino a cento.

TRASFORMEREANNO LE LORO SPADE IN ARATRI

A voler fortemente questo villaggio è stato un uomo che ha dedicato l’intera esistenza a rendere possibile il sogno di Isaia («trasformeranno le loro spade in aratri e le lance in falci»): il domenicano Bruno Hussar. «Oasi di pace» significa infatti Nevè Shalom in lingua ebraica e Wahat al-Salam in arabo ed è un posto dove, seguendo la profezia di Isaia 32,18, – «il mio popolo abiterà in un’oasi di pace» – uomini e donne di cultura e fedi diverse, antagoniste e irriducibili, hanno scelto di manifestare la loro fede in una riconciliazione fra i loro popoli, quello ebraico e quello arabo, che abitano questa terra e, da quasi un secolo, se ne disputano il possesso. Padre Bruno, all’inizio degli anni ’70, sognò un luogo dove si potesse rompere le barriere di paura e di pregiudizi. Un villaggio, ed era il primo scopo per cui è sorto, dove mostrare, con la sua stessa esistenza, che la coesistenza era possibile e che vi erano, anche in quella terra, uomini e donne disposti a pagare il prezzo di una riconciliazione. Il secondo scopo del villaggio era quello di essere il punto di riferimento per la «Scuola di pace», un luogo dove la gente, dall’intero Israele, venisse con la motivazione di imparare ad ascoltare l’altro. «Quando un giovane vuole diventare ufficiale nell’esercito del suo paese» mi disse il giorno che, molti anni fa, lo incontrai «sceglie una delle numerose accademie o scuole di guerra e consacra alcuni anni della sua vita ad imparare l’arte di difendersi e di ammazzare. Questa è la guerra. Se qualcuno vuole dedicarsi a lavorare per la pace, non trova un’accademia né una scuola di pace, perché si pensa che la pace sia una cosa che abbiamo nel sangue, che va da sé. Non è vero: la pace è un’arte che non si improvvisa ma deve essere imparata». E ancora: «Bisogna formare una generazione di giovani che si renda conto che la verità non è da una parte sola e che ci si può sedere insieme a negoziare la pace. Domani questi giovani saranno elettori o eletti al Parlamento e, se sono stati formati al dialogo, potranno forse costruire quella pace che i loro genitori, troppo feriti dalla guerra, non possono ancora costruire».

L’UOMO DALLA QUATTRO INDENTITÀ

«Uomo dalle quattro identità» amava definirsi padre Bruno. Nato al Cairo, in Egitto, da genitori ebrei non religiosi, cresce in un ambiente arabo, parla inglese, francese e italiano. Iscrittosi a ingegneria a Parigi, scopre la fede e entra nella Chiesa cattolica, scegliendo l’ordine domenicano. Orgoglioso delle sue radici ebraiche, nel 1953 decide di «salire in Israele», per condividere il ritorno in Sion del popolo ebraico. Qui fonda la Maison sant’Isaïe, il centro nel quale si trovano gli ebrei israeliani che credono in Gesù come Messia. Una minoranza nella minoranza cristiana, che in Israele è quasi del tutto composta da palestinesi, che fa riferimento allo stesso Patriarca latino di Gerusalemme. Padre Bruno è a Roma durante il Concilio, chiamato a far parte degli esperti che scrivono la dichiarazione «Nostra Aetate», con la quale la Chiesa cambia radicalmente atteggiamento verso gli ebrei e il giudaismo: non più «perfidi giudei» (espressione rimasta nella «preghiera universale» del Venerdì Santo fino al 1958) ma «carissimi a Dio». «Israele è un paese dove qualche volta l’utopia diventa realtà», amava ripetere padre Bruno. Così ricevette in dono, dai trappisti di Latrun, un terreno mai coltivato dal tempo dei bizantini. Non c’era una goccia d’acqua, né un solo albero: solo sassi e spine. Inoltre la gente del posto restava diffidente al progetto. Fu così che padre Bruno lanciò un «ultimatum» a Dio: gli chiese cioè di dargli, entro dodici mesi, due segni, una famiglia che condividesse il sogno venendo ad abitare insieme e denaro sufficiente per cominciare a costruire la Scuola di pace. «Disgraziatamente», mi raccontò scherzando, «dopo pochi mesi mi vennero dati questi due segni. Oramai non ci credevo più e avevo già fatto i miei progetti… Invece Dio mi prese sul serio e venne da me una famiglia ebraica di educatori che aprì la strada all’arrivo di altre famiglie. Per il denaro, invece, la cosa fu curiosa. Una famiglia svizzera, tramite un servizio televisivo, venne da noi e vide che la ragione principale per la quale non potevamo incominciare la Scuola per la pace era che non avevamo gabinetti… Avevamo solo buchi nella terra con i sacchi intorno… Per la doccia dovevamo andare in un kibbutz ad una decina di chilometri di distanza. Questa famiglia svizzera si commosse e trovò la somma per costruire le toilettes. Qualcun altro ci permise di raccordarci all’acquedotto pubblico, altri di comperare quattro generatori per l’elettricità, altri ancora di mettere una polvere speciale sulla strada che impedisse la formazione del fango».

LA SCELTA DELL’EDUCAZIONE

L’idea di creare strutture scolastiche che potessero esprimere e diffondere gli ideali di coesistenza ed eguaglianza di Nevé Shalom/Wahat al-Salam nacque nella comunità assieme alla nascita dei primi figli. Il progetto prese corpo nella forma di un asilo nido binazionale dal quale, con l’andar degli anni, sono, poi nate una scuola materna e una scuola elementare. Dopo diversi anni di attività, tali strutture hanno aperto le porte anche ai bambini dei villaggi vicini. Oggigiorno la scuola elementare e quella materna contano complessivamente trecento bambini, quattro quinti dei quali provengono dai villaggi vicini. Il sistema scolastico adottato a Nevé Shalom/Wahat al Salam è l’unico in Israele che preveda un’educazione bilingue: studenti e maestri, pertanto si esprimono nelle lingue dei due gruppi di popolazione, ebrei e palestinesi. Questo singolare approccio viene applicato sin dall’asilo nido e dalla scuola materna. Ciascuno degli insegnanti – ebreo o palestinese – parla a tutti i bambini esclusivamente nella propria lingua madre. In tal modo, sin dai loro primissimi anni i bambini vanno acquisendo consapevolezza delle loro specifiche culture, identità e tradizioni. Vige un’atmosfera di tolleranza e apertura che stimola negli alunni la reciproca comprensione e accettazione.

LA SCUOLA DI PACE

Nel 1979 padre Bruno senti l’esigenza di dare vita ad una “Scuola di Pace”, come istituzione capace di far sentire in massima misura verso l’esterno l’impatto educativo di Nevé Shalom/Wahat al-Salam. Tramite una varietà di corsi e seminari diretti a molteplici strati sociali delle popolazioni ebraica e palestinese, la Scuola per la pace opera per accrescere la consapevolezza della complessità del conflitto e migliorare – con l’esclusivo ricorso a metodi educativi – la comprensione reciproca tra palestinesi ed ebrei. I programmi della Scuola di pace mettono soprattutto in evidenza quanto sia importante il comprendere la complessità del conflitto tra i due popoli. In tal modo le iniziative della Scuola consentono a ciascuno dei partecipanti di assumere coscienza del proprio ruolo nel conflitto, e di mettere a fuoco elementi quali i rapporti di potere, gli stereotipi e i pregiudizi. A tutt’oggi quasi trentamila giovani, tra i 15 e i 18 anni, hanno partecipato ai corsi della Scuola per la pace, hanno condiviso la faticosa ricerca del rispetto e della tolleranza, hanno pregato, in silenzio, nella grande cupola bianca, dumia, che padre Bruno ha voluto costruire per permettere a tutti, anche ai non credenti, (lui che ha voluto essere sepolto con l’abito domenicano) di ritirarsi e rientrare in se stessi, nel santuario della propria coscienza.. «Per Te, il silenzio (dumia) è lode», recita il Salmo 65,2. Un luogo, uno spazio per la meditazione, la riflessione o la preghiera. Nella visione profetica di padre Bruno, nel suo vigile spirito precursore «uno spirito che, per molti versi, è avanti almeno d’una generazione rispetto alla cultura del suo e del nostro tempo» il momento forse più alto è l’idea di uno “spazio di Silenzio”, di un luogo «in cui tutti potranno venire a raccogliersi, dove ogni culto potrà essere reso a Dio, nella fedeltà alla propria tradizione e nel rispetto delle altrui».

IL REALISMO DELLA PROFEZIA DI PACE

«Per voi che vivete in un altro Paese – mi disse alla fine dell’intervista – è difficile capire che dramma è per un ebreo di destra o per l’arabo di Israele scoprire che l’altro non ha completamente torto. A poco a poco arrivano, alla fine del percorso, a sentirsi così vicini che non è raro vedere ragazze, ebree e arabe, piangere quando devono separarsi. Diventano cioè capaci di fare quella pace ancora impossibile ai loro genitori». Ora padre Bruno, morto l’otto febbraio del 1996, è sepolto sulla collina che domina la valle Ayalon, nella quale secondo il racconto biblico Giosuè fermò il sole durante una battaglia, e che fu, negli anni ’47-’48, teatro di violenti scontri armati tra arabi ed ebrei. Ancora oggi vi si trova il Museo delle Forze armate israeliane. Proprio lì di fronte, sta il corpo del visionario, del profeta di un futuro diverso per ebrei e per palestinesi. Nel giro di pochi anni il villaggio e la sua Scuola per la pace diventano il teatro di un importantissimo mutamento di mentalità, di un’operazione qualitativamente preziosa di disinnesco di quell’enorme bomba emotiva, irrazionale, che il cumulo di tragedie e di ingiustizie consumate nel Vicino Oriente negli ultimi decenni è andato producendo. E paradossalmente proprio Nevé Shalom/Wahat al-Salam, questo presunto “esperimento utopico”, finisce per svolgere il ruolo imprevedibile di “campione del realismo”, grazie alla sua capacità di evitare gli scogli insidiosi del fondamentalismo religioso e dell’estremismo politico, e di prefigurare lucidamente una situazione di convivenza ragionevole e secolarizzata fra persone che si identificano con tradizioni religiose, culture, nazionalità diverse e conflittuali. Le idee di padre Bruno, grazie a Dio, hanno camminato e camminano con i passi svelti dei migliaia di giovani incontrati.