La violenza non è amore. I cinque campanelli d’allarme per capire quando una relazione «deraglia»

Trecento nel 2014 gli episodi di violenza nella Bergamasca. Trecento donne che hanno vissuto sulla propria pelle l’orrore di una violenza vissuta proprio dove dovrebbero sentirsi più al sicuro, tra le mura di casa.

Ma chi è il maltrattatore? «Il maltrattamento è un fenomeno della relazione, – spiega Serena Cerri, psicologa che lavora al Centro Aiuto Donna di Bergamo – una violenza che accade nella coppia in modo reiterato. Spesso si può essere portati a pensare che la persona che maltratta è una persona con problemi, e le convinzioni più comuni lo dipingono con problemi di alcool o disturbi di altro tipo. In realtà il 50% degli uomini che emergono dai dati che abbiamo ha il solo problema di essere violenti, di non essere in grado di relazionarsi con gli altri. Si parla di uomini con personalità narcisistiche: loro devono star bene». Poche le denunce, per un fenomeno che è trasversale a ogni fascia della popolazione: italiani e stranieri, laureati o meno; non esiste una caratteristica tipo del maltrattatore, anche se si possono raccontare alcuni segnali utili al riconoscerlo.

Esistono alcuni campanelli d’allarme che devono far riflettere sul rapporto affettivo che si sta costruendo con il partner. Più precoci sono, in una nuova relazione, questi campanelli d’allarme (vissuti in maniera ripetuta), più aumenta il rischio che con lo svilupparsi del rapporto questi si facciano più violenti e pericolosi.

  • Il partner è eccessivamente geloso. Telefonate continue, messaggi per sapere dove si è e con chi, controllo dell’abbigliamento: nessuno di questi comportamenti ripetuto in maniera ossessiva è sano in una relazione.
  • Il partner ha una spiccata propensione al controllo. È il passo successivo all’eccessiva gelosia. Le telefonate, i messaggi e il controllo dell’abbigliamento non bastano più, il partner preme per allontanare la compagna dalla famiglia d’origine, per accentuare gli screzi con i parenti, e insiste perché la donna lasci il proprio posto di lavoro.
  • È incapace di mantenere relazioni significative. Ha una spiccata propensione alla lite, quindi non ha amici, ne’ relazioni stabili. Non solo. Si è reso protagonista in altre occasioni, indipendenti dalla relazione, di episodi di aggressione fisica, di risse.
  • Episodi di aggressione fisica. L’aggressione fisica va dalla spinta lieve a episodi di violenza molto più pesanti, come tentativi di strangolamento. Ma non si deve sottovalutare anche solo la spinta nel corso di una lite: se reiterati, questi episodi sono il segnale che la persona che si ha di fronte non è in grado di controllarsi. All’estremo opposto dello spintone c’è lo stupro coniugale: la costrizione al rapporto sessuale è violenza anche con il proprio partner, anche se da molte donne non è sentito come violenza.
  • Violenza psicologica. Il partner agisce nei confronti della persona che ha accanto attraverso svalutazioni e minacce, la denigra in pubblico, la umilia. Arriva anche a rompere oggetti che le appartengono, è un modo per sottolineare il controllo che ha su di lei, sembra dire: ciò che posso fare con quello che ti appartiene lo posso fare anche con te.

 

Ci sono tre consigli per le donne che vivono sulla propria pelle situazioni di violenza.

 

  • Chiedere aiuto. Alla famiglia, agli amici, al Centro Anti Violenza, ai servizi sociali, alle forze dell’ordine, al medico di base, e, in caso di emergenza, non esitare a rivolgersi al pronto soccorso. Il primo passo è il più difficile, ma è importante accettare la fine del rapporto, superare il senso di vergogna e il senso di colpa: quell’amore è finito. Perché non esiste chi picchia per amore.
  • Pensare che non si è sole. Una delle paure maggiori di una donna è quella di trovarsi ad affrontare da sola gli aspetti concreti della vita quotidiana. E poi ci sono i figli. Ha senso continuare il rapporto per loro? La convinzione che sia meglio affrontare un rapporto del genere per il loro bene, pur di non far vivere loro una relazione disgregata è assolutamente errato. La motivazione si chiama violenza assistita: veder vissuti episodi di violenza sulla propria madre, per la psiche del bambino si trasforma nel viverli direttamente sulla propria pelle. Non si travisi, la conflittualità non corrisponde alla violenza, se il bambino non vede mai i propri genitori litigare non imparerà a gestire nel modo adeguato le conflittualità, ma il conflitto è molto diverso dalla violenza.
  • Trovare strategie per rendere meno difficile la situazione attuale. C’è un momento di transizione. Quello che va dal momento in cui nasce la consapevolezza di non volere più una situazione di violenza al momento in cui, materialmente, la donna abbandona il tetto coniugale. In questo momento di transizione la donna deve trovare un modo per resistere: non cadere nelle provocazioni, per esempio.