L’estate in India nella scuola delle suore orsoline di Arugolanu: non un Paese qualunque, ma un corpo vivo

Ho conosciuto una persona, si chiama India. Da quando sono tornata, la prima domanda che la gente mi rivolge è: “Com’è andata?”. E la prima, a volte l’unica, risposta che do è: “Bene.”, in bilico tra la speranza e la paura che mi venga chiesto di approfondire quelle due sillabe sterili. Succede sempre così: Gunung Sitoli (Indonesia), Primavera (Brasile), e quest’anno Arugolanu (India). Tre viaggi promossi da Caritas, con uno stile che mi è necessario, quello del “non fare ma vivere”: tre settimane in cui sperimentare il presente, senza l’ossessione di riempire ogni spazio bianco dell’agenda. Ho scelto una destinazione mai vista, quella che tutti definiscono come il Paese che ti cambia la vita. Ospite, insieme ai miei quattro compagni di viaggio, dello Sneha Bhavan Convent, Ursuline Sisters of Somasca, ho trascorso le mie giornate attorno ad un cortile di terra rossa: mattina e pomeriggio animazione agli alunni della scuola che le suore gestiscono, pasti e serate in compagnia delle stesse suore e delle ventotto ragazze ospiti della struttura. In apparenza ho vissuto giorni di fare, con il programma dell’indomani stabilito da Sister Stella la sera precedente, compresi quelli che sarebbero stati le pause e i momenti liberi. In realtà ho vissuto la quotidianità di questo Paese, scoprendo che India non è una nazione, ma un corpo umano. Un corpo che è carne, ricurva sulle distese sfavillanti che sfamano il mondo. Un corpo che è anima, inginocchiata a chiedere perdono per colpe non commesse e a pregare perché la propria identità venga ricordata nel nome e nel volto. Un corpo che è udito, primo dei sensi rinato in questo viaggio, frastornato dal concerto disarmonico di clacson, campanelli e voci, non convenzionale codice della strada. Un corpo che è vista, sedotta dalla nudità della terra e da donne ricoperte di colore. Un corpo che è olfatto, avido di spezie e cullato dal dolce profumo dei fiori che si intrecciano ai capelli. Un corpo che è gusto, divertito ad indovinare aromi sconosciuti e grato per chiunque può mangiarne condividendo. Un corpo che è tatto, carezza delicata di una sorella minore, custode dell’arte della bellezza; tatto che sono innumerevoli dita che si contendono mani sconosciute e troppo chiare, capaci di lottare incessantemente per riuscire finalmente a stringerle, instancabili formiche, silenziose custodi della terra; tatto che sono piedi ornati di melodiosi fili argentei che scuotono la terra, piedi scalzi che conoscono l’attesa e procedono incerti e sorridenti accanto a te. “Com’è andata?” – “Bene, ho conosciuto una persona, si chiama India”.