Fare la catechesi. Essere ultimi non significa fare male

Cara suor Chiara, nei giorni scorsi abbiamo letto nel Vangelo che il discepolo del Signore deve essere l’ultimo di tutti e il servitore di tutto. Sono catechista. Vorrei il tuo parere sulla pratica relativa a quella frase. Se la mia catechesi va bene sono felice. E ho la sensazione netta che se è andata bene non è l’ultima e, sinceramente, non vedo perché dovrebbe essere l’ultima per essere una buona catechesi. Tu cosa ne pensi? Lucia

Se per ultima intende “malriuscita” è in grande errore, cara Lucia! Nessuno, nemmeno il Padre Eterno, pensa che una buona catechesi, per essere tale, debba essere ultima, cioè malriuscita!

“LA VIA PER ANDAR SU È SCENDERE GIÙ”

Invitandoci alla minorità e al servizio dei nostri fratelli, Gesù non intende augurarci né disprezzo, né tanto meno umiliazioni di ogni genere, ma, al contrario, desidera indicarci quella via regale che lui stesso ha percorso sino alla fine, che promuove la nostra esistenza, elevandola ad “un piano superiore”.

Venendo in mezzo a noi come povero e servo di ogni uomo, egli ci ha mostrato che solo camminando per la stessa strada e assumendo i suoi stessi sentimenti possiamo riappropriarci della dignità regale che ci è stata donata nel battesimo.

“La via per andare in su, – diceva san Serafino da Montegranaro, discepolo di san Francesco d’Assisi – è …scendere in giù!”. Accettando tale logica, possiamo veramente crescere in umanità e aiutare ogni nostro fratello a crescere con noi.

Vivere l’esistenza come umile servizio alla vita, alla storia, alla società, alla Chiesa è il frutto buono dell’interiorità plasmata dal vangelo e illuminata dallo Spirito Santo; ogni nostro lavoro, ogni impegno quotidiano, ogni relazione interpersonale è grande agli occhi di Dio; ciascuno di noi, in quanto dimora di Dio stesso, è ancora più grande!

Quanto è importante, allora, curare l’atteggiamento interiore con il quale svolgiamo le tutte le nostre mansioni, sia quelle più umili che quelle più grandi agli occhi del mondo.

La consapevolezza della nostra grande dignità ci abilita a vivere, da ultimi, da minori, da fratelli, e a svolgere, “da re,” un incarico umile e nascosto, senza che il vittimismo, l’umiliazione e la rivendicazione abbiano il sopravvento.

San Francesco d’Assisi, contemplando Cristo povero e crocifisso, scelse per sé e per i suoi frati la medesima via dell’umiltà e della minorità; scrive, infatti, nella regola: “Tutti siano chiamati semplicemente frati minori. E l’uno lavi i piedi all’altro”.

ANCORA PIÙ FRATELLI

La scelta evangelica di stare all’ultimo posto, in nome di Cristo e sul suo esempio, ci rende reciprocamente ancor più fratelli, insegnandoci a fare nostre le necessità di chi vive accanto a noi, ponendoci nella disponibilità ad uscire dal nostro “io” per aprirci agli altri, insegnandoci a condividere le loro gioie e i loro dolori. Essa non ci esime dall’impegno quotidiano di trafficare al meglio i talenti ricevuti, svolgendo con attenzione, competenza, disponibilità gli incarichi affidatici, affrontando fatica, incomprensioni, ecc., ma ci rende ancor più consapevoli della necessità di dare il nostro personale contributo all’edificazione di una società più umana e alla crescita del Regno di Dio in mezzo a noi.

L’efficacia di questa opzione non è misurabile, né verificabile secondo i soli parametri umani! Non mancheranno, infatti, approvazioni, disapprovazioni, sbagli, sconfitte, che, tuttavia, non avranno il potere di farci retrocedere nel cammino intrapreso: anche nell’umiliazione ricevuta il cuore godrà quella pace che è dono dello Spirito.

“E nessuno sia chiamato priore, ma tutti siano chiamati semplicemente frati minori”: è l’augurio che il poverello di Assisi rivolge anche ad ogni cristiano desideroso di vivere il vangelo nella concretezza della sua vita.