«Ho sposato un musulmano e dico no all’intolleranza. L’ignoranza genera mostri»

«Ma cos’è successo a Parigi? Mi sa che c’è stato ancora un attentato!» ero al telefono con mia madre venerdì sera, quando hanno cominciato a trapelare le prime notizie sull’attentato che ha coinvolto nuovamente la capitale francese. Nei due giorni seguenti la mia home di facebook si è riempita di notizie di ogni tipo, commenti di ogni genere, che mi hanno aiutato anche a sfoltire un po’ la mia lista di “amicizie” virtuali.
In questi giorni di isteria collettiva, il web ha dato il peggio di sé: da chi – spesso senza nemmeno averla letta – tirava in ballo la Fallaci indicandola come profetica, a chi si augurava l’espulsione in massa dei musulmani, quei brutti cattivi che vanno a scuola con i nostri figli e fanno apposta matrimoni misti per invaderci, a chi faceva propria l’equazione musulmano = terrorista; senza contare che ormai sembrava essere diventata una gara a chi si indignava di più e per che popolo, «però ai morti siriani, ai palestinesi, ai libanesi non pensate e non parlate mai, mentre se le cose succedono in Francia è subito una tragedia» e chi più ne ha più ne metta. Come se solo attraverso i link che una persona pubblica si possa capire la sua posizione, come se il mettere o meno la bandiera di un tale o quell’altro stato in segno di lutto determinasse o meno la sua sensibilità… insomma, un’isteria virtuale. Non potevano mancare gli “approfondimenti” proposti dalla televisione italiana, che ho voluto appositamente evitare ma di cui ho letto tramite i social network, dove invece di invitare veri esperti, si trovano politici di determinati schieramenti che sfruttano queste tragedie per guadagnare un po’ di consensi. La sera, quando mio marito  – musulmano -, è tornato a casa, l’ho guardato e gli ho detto: «Ma davvero pensi che sia un bene ritornare in Italia?».
Una domanda che è aleggiata nell’aria senza risposta. Sì, perché dall’aprile 2014 viviamo in Tunisia, un paese a maggioranza musulmana, e non laico come spesso viene indicato dall’altra sponda del Mediterraneo. Un Paese in cui non mi sono mai sentita discriminata per il mio essere «straniera» o di fede diversa, anche se certamente, per alcuni aspetti mi sono dovuta adattare, come succede in ogni migrazione. I nostri piani erano infatti di ritornare in Italia tra massimo un anno. Ma in momenti come questi, ogni certezza crolla. Con tutto il rispetto per le vittime dell’attentato, mi sono chiesta che clima avremmo respirato se avessimo deciso di tornare. Leggo di ragazze musulmane velate insultate solo per il semplice fatto di essere musulmane, della pretesa che prendano posizione e condannino crimini che non han commesso (ma quando le condanne avvengono, i media a momenti le ignorano). È un clima che sinceramente non mi spinge a tornare, e mi mette addosso tristezza mista a paura, e mi chiedo, ma se dovessimo decidere di fare un figlio, in che clima crescerebbe? Stigmatizzato solo perché di una fede diversa? Perché il padre da un giorno all’altro potrebbe diventare – secondo il ragionamento comune – un probabile terrorista solo perché musulmano? Io vivo circondata da musulmani, e se penso a loro penso a mia suocera, che divide le sue giornate tra la preghiera e un’associazione di volontariato che aiuta i più poveri; penso al guardiano della chiesa anglicana che un giorno mi ha aperto apposta la chiesa per farmela ammirare e ha voluto sottolineare come siamo tutti uguali, cristiani, musulmani, cambia solo il luogo in cui preghiamo e il Dio a cui ci rivolgiamo; penso al libraio di strada che saputo del mio interesse per la lingua araba, voleva procurarmi un libro con cui l’avrei imparata perfettamente… non sono loro ad essere eccezioni, sono i terroristi ad esserlo, persone che usano la religione per perseguire altri scopi. Demonizzare i musulmani non sarebbe fare il gioco dei terroristi? È tempo di essere uniti, ora più che mai, di costruire ponti e non muri, di mettere da parte le proprie paure e cercare di conoscersi davvero. Ricordando le parole di papa Francesco: «L’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l’educazione alla scoperta e all’accettazione della differenza come ricchezza e fecondità» e «ci si avvicina all’altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista».

La foto di apertura del post è di © Giada Frana