In morte di un amico

Foto: un’immagine celebre del “Settimo sigillo” di Bergman

“ENTRIAMO, USCIAMO, SIAMO PELLEGRINI SULLA TERRA”

“Ineuntes, exeuntes, peregrinamur in terris”: così capita di leggere ancora oggi sul frontone della Camera di Commercio di Erfurt, capitale della Turingia, dove Lutero ha fatto i propri studi di filosofia. “Entriamo, usciamo, siamo pellegrini sulla terra”. È la descrizione oggettiva della nostra vicenda umana, ma anche un tentativo di metterci al riparo dalla paura del nostro personale exitus e dal dolore della perdita di chi ci è stato più prossimo, di chi ha intrecciato la sua vita con la nostra. È un modo di rammendare lo strappo che la morte dell’altro produce nella rete delle nostre vite. Quello del pellegrinaggio è lo scenario consolatorio disegnato per tenere insieme la “magna viventium et defunctorum communio”, quella dei visibili e degli invisibili. Se poi, come sto facendo io, il tutto viene detto in latino, l’effetto solacium è ancora più forte. Evoca le messe di Requiem e di speranza, nelle chiesa piena di gente, di canti, di lacrime e di incenso, quando si alzano verso le volte barocche le note gregoriane di “In paradisum perducant te angeli”…

TUTTO NORMALE? CENTO MILIARDI DI INDIVIDUI SONO PASSATI SULLA TERRA

Tutto normale, dunque? Da un certo punto di vista, sì. Non esistono individui di ogni specie animale su questa terra che si possano sottrarre al destino della nascita e alla morte: non scelgono di nascere, non scelgono di morire. Accade e basta. Quanto alla specie che gli uomini hanno definito, non senza esagerazione, homo sapiens, i demografi azzardano un calcolo: sulla terra sono passati e sono scomparsi fino ad ora circa cento miliardi di individui. Senza eccezioni. E così sia. La morte, dunque, come un destino naturale? Così ce la raccontiamo.

UNA STRANA “PATOLOGIA DELL’INFINITO”

Ma dal profondo del nostro essere scatta la rivolta contro questo destino “naturale”. Dagli abissi ontologici del nostro cuore muove un desiderio di eternità e di infinitudine oltre l’orizzonte naturale di morte e di finitudine. Anche questo desiderio pare naturale. Difficile dire se gli animali portino dentro questo seme di vita indefinitamente vivente. Ma alla nostra specie questo accade. È un prodotto dei nostri neuroni? Vero è che, senza la complessità delle reti sinaptiche e dei 100 miliardi di neuroni che costituiscono il nostro cervello, la nostra mente non sarebbe complessa e, soprattutto, autocosciente. Né potrebbe manifestare questa strana “patologia dell’infinito”. Ma tale condizione neuronale è anche la causa prima della tensione all’infinito? Qui si apre una porta sull’ignoto. Che nel frammento di Eraclito, che il Diels-Kranz numera con il 45, viene così descritto: “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo per intero la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos”. Eraclito è morto nel 475 a. C. Si tratta, come si vede, di pensieri che vengono da lontano e che lasciano aperto il discorso dei confini.

CIÒ CHE STA OLTRE IL CRINALE

Ciò che sta al di là di questo crinale è stato oggetto nei secoli di speculazioni, di mitologie, di profezie, di fedi. La posta in gioco è semplice a dirsi: ciò che io sono, la mia densità ontologica, è destinata a fiorire da qualche parte a fino al “videbimus Eum sicuti est” di Giovanni oppure, come accade per le piante e gli animali, è condannata a sfibrarsi, a bruciarsi nella fornace di un pluriuniverso, che si espande e si contrae, che distrugge stelle e pianeti e ne genera altri ab aeterno incessantemente? Sì, è certamente consolante pensare che rimarrai nella memoria di un paio di generazioni. E se hai pesato nella storia del mondo, ti toccherà magari dare il nome ad una via, ad una piazza, ad un monumento, a una Fondazione: sì, molte più generazioni ti ricorderanno. E se sei stato uomo di speranza e di misericordia, la chiesa sarà piena di gente che ti dà l’ultimo saluto. Ma tu non sarai più presente né a te stesso né alla storia del mondo. Insomma: non mi basta! Allungando una carezza sul viso terreo dell’amico morto, prima che il legno lo sottraesse per sempre alla scena del mondo… ascoltando il canto del Salmo 22, tradotto da padre Turoldo, che parla del “migrare dei giorni”, dei miei giorni, che stanno scivolando alle spalle… è a tutto questo che ho pensato. A meno che i giorni degli uomini, i giorni della storia, siano in realtà anche i giorni di Dio…