“Per mio figlio”: un ragazzo ucciso da un’auto pirata e una madre in cerca di vendetta

Il figlio di Diane Kramer è stato travolto e lasciato morire sulla strada da un’auto pirata. Lei non si dà pace e, affiancata da un detective, segretamente va in cerca della verità. Ricompone i cocci di un’assenza “Per mio figlio” di Frédéric Mermoud, tratto dal romanzo di Tatiana de Rosnay (a Bergamo in questi giorni al cinema Conca Verde). Fino a che punto possono spingersi il dolore di una madre e il desiderio di vendetta? Si chiede il regista, costruendo un thriller psicologico sullo sfondo di una cittadina di provincia, in montagna, sul confine tra Francia e Svizzera. Diane (interpretata con grande intensità da Emmanuelle Devos) può aggrapparsi a un solo indizio: una Mercedes color caffè (il titolo originale è “Moka”) che un testimone ha visto sulla scena dell’incidente. Alla guida – riferisce l’investigatore – una donna bionda, con un uomo accanto, sul sedile del passeggero.

Diane trova Michel, insegnante di nuoto, e la sua compagna, la bionda estetista Marlène (un’ottima Nathalie Baye), e scopre che lui sta cercando di liberarsi dell’auto – la Mercedes color caffè – vendendola a un prezzo stracciato. E’ solo istinto, all’inizio, ma si sente vicina alla verità. Così incomincia ad addentrarsi nella vita della cittadina, e fingendosi scrittrice spinge le sue domande oltre il confine di una educata cortesia.

La sceneggiatura scarna, il lirismo dei paesaggi, la lentezza insistita delle inquadrature, i silenzi: tutto concorre a creare un’atmosfera rarefatta, che ci ricorda quella di una tragedia greca. Ci sembra, per dire, a un certo punto, di trovarci nel bel mezzo dell’Orestea di Eschilo, a ragionare sul senso della colpa e sull’ineluttabilità dell’espiazione.

Al centro del film c’è soprattutto il confronto tra due madri, Diane e Marléne, la difficoltà di sciogliere conflitti irrisolti, di ritrovare parole non dette e rapporti interrotti – se non dalla morte – dall’incapacità di comunicare. Diane è indotta dalla sua ricerca a guardarsi dentro, a chiedersi dove vuole davvero arrivare. Impara a usare una pistola, ma alla fine – trovati i colpevoli – vorrà davvero premere il grilletto? Il suo bisogno di scoprire come sono andate veramente le cose e la sua ostinazione – riusciamo a capirlo meglio man mano che il film procede – non sono legate semplicemente alla morte del figlio, ma alla sua identità di madre e di donna, alle sue insicurezze, al suo rapporto con la realtà e con la vita. Scoprirà – e noi spettatori con lei – che non è la vendetta quello che le serve davvero per ritrovare la pace, la gioia di vivere, la speranza per il futuro, ma la capacità di perdonare, prima di tutto se stessa.