I cattolici nella società e nella politica. Una presenza assente

I cattolici si sono rifugiati in chiesa

Gli interventi di Alberto Carrara e di Davide Rocchetti su santalessandro.org battono duramente – e non è la prima volta – sul duro tasto dei rapporti difficili o, peggio, ininfluenti, tra la politica e i cattolici. Dopo la diaspora della DC, iniziata il 18 gennaio 1994, – che de Gasperi definì “un partito per cattolici” (mentre il Partito popolare di don Sturzo era un “partito di cattolici”, ma non “cattolico”) – i cattolici paiono aver abbandonato la politica ed essersi rifugiati in chiesa, come quando arrivavano i barbari… Sì, hanno tentato qualche sortita vittoriosa (?) al tempo del Card. Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007 – penso, in particolare, al Progetto culturale orientato in senso cristiano del 1997 – ma poi sono rifluiti.

La loro presenza resta imponente ma non si vede

Eppure, la presenza dei cattolici nella società civile italiana resta imponente. Secondo il rapporto Eurispes del 28 gennaio 2016, si dichiara cattolico il 71% degli italiani, circa 40 milioni. Di costoro, solo il 25,4% è realmente praticante, circa 10 milioni. A messa ogni domenica va il 20,5%, circa 8 milioni. Le parrocchie sono 26 mila. Ma, oltre alla presenza fisica in chiesa, occorre mettere sul piatto della bilancia più di 30 ordini religiosi, associazioni laicali, giornali – tra cui il nostro Eco di Bergamo – Riviste, TV, librerie, siti web… Ogni domenica circa 8 milioni di italiani ascoltano letture dei Vangeli e un sacerdote che parla. Una presenza molecolare, dentro una società civile attraversata, oggi, da odi, lacerazioni, semplificazioni ideologiche, rabbie e disperazioni. Una società di diseguali e di rancorosi. Eppure, pare essere una presenza assente, che contribuisce assai poco a segnare e ad influenzare la politica.

La politica, necessaria

Che significa ”politica” e che significa “cattolici in politica”? “Politica” vuol dire occuparsi della dimensione pubblica, di ciò che sta fuori dalla nostra cerchia privata e familiare. Il fatto è che il nostro destino e quello del mondo sono strettamente intrecciati. Si ritenga che gli altri sono necessari alla nostra realizzazione personale o, all’opposto, un ostacolo – che l’uomo sia un animale politico o un lupo per gli altri – in ogni caso “politica” richiede uno sguardo sul mondo, un giudizio sul mondo e una presenza esistenziale nel mondo. Concretamente, significa almeno far sentire la tua voce sulle questioni pubblica, votare un tuo rappresentante in Parlamento e, magari, anche il Capo del governo. O anche iscriversi ad un’associazione, ad un partito, ad un gruppo on line. Tutti hanno uno sguardo sul mondo, composto di conoscenze fattuali e di un punto di vista “a priori”. Anche coloro che se ne disinteressano.

Lo sguardo cristiano sul mondo: un pessimismo creativo

Qual è lo sguardo del credente cristiano? San Paolo scrive agli Ebrei: “Non abbiamo infatti qui una città permanente, ma tendiamo alla città che deve venire” (13,14). Cioé: nessuna illusione circa la politica redentrice, che assicuri “i domani che cantano”, secondo l’espressione poetica del poeta comunista Paul Éluard. Nessun cedimento rispetto a derive da volontà di potenza, ad attese messianiche del Regno di Dio in terra. Nessun ottimismo sulla storia umana. E, tuttavia, neppure il rifiuto di mischiarsi con la polvere e il fango della storia. Al versetto precedente, San Paolo invita i suoi interlocutori ad andare fuori degli “accampamenti”, “fuori della porta”, portando l’obbrobrio di Cristo, sacrificato sulla croce appunto fuori delle porte di Gerusalemme. Insomma: un pessimismo creativo e pieno di speranza. In esilio, ma non in attesa passiva.

Le parole delle prediche suonano vuote

Da parecchi anni a questa parte, molte Parrocchie si sono incamminate su una terza via: quella del devozionismo intimistico, delle scenografie liturgico-teatrali, delle parole vuote. Basta un’analisi del lessico dei sermoni domenicali – amore di Dio, regno di Dio, Sacro cuore, gloria di Cristo, salvezza, redenzione, intercessione della Madonna, carità, perdono, misericordia ecc. ecc… – per documentare il vuoto di significato di una langue de bois liturgico-burocratica. Parole senza carne, senza intenzionalità storica. Che cosa manca in queste prediche? La storia o la fede? Tutte e due. Se chi parla non partecipa con passione alla vicenda del mondo, se non sente la voce della stagione presente, la domanda religiosa non insorge e la fede non può dare risposte ad una domanda assente. E se, a sua volta, la fede è ridotta ad uno stanco linguaggio liturgico-cerimoniale, allora non trova le parole convincenti per rispondere alle domande di senso di chi sta radicato con passione viva nella storia degli uomini. Risultato: la Parola scivola sugli ascoltatori come acqua sul marmo. Chi entra in chiesa e poi ne esce non ha cambiato nulla di sé.

Immigrazione: la Chiesa o Salvini?

Questa catastrofe accade tutte le domeniche in tutte le 26 mila parrocchie? Così, a naso, sarebbe arrischiato sostenerlo. Servirebbero indagini scientifiche serie. Intanto e nell’immediato, basandosi su percezioni soggettive sia pure incomplete, possiamo auspicare che al fondamentale esercizio della Parola sia data una preparazione più attenta, fatta non solo di teologia e di Bibbia, ma di conoscenza reale del mondo, acquisita con i mezzi propri delle scienze sociali. Parlare di Medioriente e di islamismo, senza conoscenze geopolitiche, economiche e storiche, si finisce per fare della retorica della pace e della misericordia al cospetto dei fedeli, che, usciti di chiesa, vanno a cercare altrove il senso di ciò che accade e le ragioni per collocarsi sul campo di battaglia culturale e politica. Alberto Carrara e Davide Rocchetti fanno l’esempio della questione dell’immigrazione. Chi orienta? La Chiesa o Salvini? Ciò implica che le parrocchie non siano solo centri divozionali e, talora, caritativi, ma, in primo luogo, centri di battaglia culturale, fatta dai cattolici, quale minoranza socio-culturale del Paese. Le classi dirigenti della Chiesa italiana – parlo dei vescovi e dei sacerdoti – continuano a muoversi, per antico riflesso pavloviano, come se fossero maggioranza e, soprattutto, come se dovessero mantenersi maggioranza. Pertanto, il discorso pubblico si sforza di tenere insieme tutti, a fini del consenso più ampio. Un discorso diluito, né caldo né freddo. La condizione in cui versa oggi la società italiana, costituita di minoranze lobbistiche o corporative, l’una contro l’altra armata, richiederebbe l’opposto: la presenza e la testimonianza di una minoranza creativa, come nel 2007 raccomandò Papa Benedetto XVI durante un viaggio aereo da Roma a Praga.