L’odio in rete. Bruno Mastroianni: “Disinnescare il conflitto è possibile. Vietato arrendersi”

E’ quasi impossibile frequentare i social senza imbattersi in discussioni che degenerano in risse, insulti, offese reciproche, spesso indipendenti dai contenuti che le avevano inizialmente suscitate. Capita, a volte, di essere attaccati perfino sul proprio profilo personale per la condivisione di contenuti che si ritenevano “innocui”. Come si fa a disinnescare questi conflitti, a fare in modo che si spenga l’ondata di odio, violenza e rabbia che attraversa i social network in questo momento? Bruno Mastroianni – docente universitario, autore di contenuti e social media manager per “La grande storia” di Rai 3, consulente di comunicazione – propone un punto di vista originale ne “La disputa felice” (Franco Cesati Editore), in cui analizza la situazione attuale e offre alcune linee di condotta utili a singoli, famiglie, professionisti della comunicazione, ma anche a parrocchie e oratori. L’obiettivo è trasformare il confronto con l’altro, con chi la pensa in modo diverso in un’azione piacevole e costruttiva: “L’unico modo per imparare qualcosa di nuovo”.

Perché è utile litigare in rete, perché non dovrebbe essere percepito come sfiancante e come si fa?
“Litigare è già un termine negativo, lo userei solo quando la divergenza sui contenuti è già diventata uno scontro che interrompe una relazione. E’ utile dissentire, divergere, avere opinioni diverse e confrontarsi, perché è uno dei modi migliori per ampliare e acquisire nuove conoscenze. Se trovassimo sempre e solo conferme delle nostre idee resteremmo fermi. Bisogna andare a caccia di ciò che contraddice le nostre tesi sul nostro cammino, perché internet tende a darci solo ciò che ci piace e che ci corrisponde, non le novità che ci spiazzano. Tendiamo ad avvicinarci e a stare solo con persone simili a noi, e a escludere e allontanare chi contraddice le nostre convinzioni. E’ un meccanismo semplice e su questo si basa il nostro modo di conoscere e di imparare. Se si ha il gusto per il confronto, però i social e il web diventano una grande occasione. Saperli usare non è solo una questione tecnica”.

Capita spesso di assistere a discussioni che degenerano o a veri propri attacchi condotti in massa attraverso Facebook. Le persone coinvolte perdono qualunque freno e senso della misura, e si comportano in rete come mai farebbero nella vita di tutti i giorni. Da che cosa dipende?
“Dipende innanzitutto dalla distanza che internet crea tra gli interlocutori. E’ diverso parlarsi faccia a faccia in privato e attraverso Facebook: ci sono di mezzo la tastiera, lo schermo e la connessione di rete, e questo rende molto più disinibiti. E’ ovvio che sia più facile dire cosa penso di un altro se non lo sto guardando negli occhi. Lo scontro avviene per due motivi: per prima cosa il web ci induce a vedere le opinioni, le informazioni e le notizie che vengono postate come qualcosa che minaccia o conferma la nostra visione del mondo. Perciò abbiamo sempre un atteggiamento politico verso i contenuti: ci viene spontaneo schierarci ancora prima di ragionare, leggere, pensarci un po’ di più. Il primo riflesso che nasce è chiedersi se si è d’accordo oppure no. Se ci pensiamo, non è naturale. In una normale conversazione una persona esprime un pensiero, l’altra prova a considerarlo, magari aggiunge qualcosa, solleva obiezioni, ma non si schiera necessariamente pro o contro. Il secondo motivo è una mancanza di educazione e di preparazione a gestire i due piani della comunicazione: il contenuto e la relazione con l’altro. L’atteggiamento è importante quanto quello che diciamo. Se scriviamo, qualcosa trapela tra le righe; nella scelta di certe espressioni e parole non stiamo solo dicendo qualcosa all’altro gli indichiamo se lo stiamo facendo in modo aggressivo, nervoso, scherzoso. Spesso trascuriamo questo aspetto. Non pensiamo che iniziare un commento con “ma che dici?” crei subito una frattura e susciti una risposta negativa. Spesso le discussioni degenerano a causa di espressioni come queste. Non tanto per l’oggetto del confronto, che spesso è anche interessante, ma per queste frasi, frecciatine indirette, oppure per le generalizzazioni: “dici così perché sei cattolico, dici così perché sei ateo”. Quando si usa un’espressione come questa, all’interno si nasconde già un’offesa alla persona: ma come, mi ritieni così poco autonomo che il mio pensiero dev’essere frutto di una categoria e non mio? Questi elementi relazionali della conversazione vengono molto trascurati eppure sono la fonte dei litigi. Se riuscissimo a educarci, a formarci a prestare più attenzione, l’effetto proficuo sarebbe quello di restare concentrati sull’oggetto del confronto, senza distrazioni. E’ un compito molto urgente per le agenzie educative, anche per le parrocchie e gli oratori: siamo tutti chiamati costantemente a questi scambi. Ognuno di noi ha uno smartphone, e insieme ad esso dobbiamo metterci in tasca anche le competenze necessarie per usarlo bene”.

Chiunque può postare un commento su Facebook, e questo offre molte opportunità e – almeno in apparenza – una grande libertà. C’è però chi interpreta questo spazio non governato “dall’alto” come assenza di regole, e ritiene di avere la facoltà di riempirlo come meglio crede, comprese le peggiori degenerazioni del linguaggio (insulti, turpiloquio, parolacce). Come si smonta questo equivoco?
“La comunicazione quando crea scontro è inefficace. Atteggiamenti aggressivi, parolacce e offese possono dare all’inizio l’impressione di essere stati molto chiari, in realtà hanno un solo effetto: creare fratture tra i gruppi di opinione. Tutti quelli con un’idea comune si applaudono a vicenda e si rinforzano in questo atteggiamento e non considerano più tutti quelli che hanno un’opinione contraria. Viene meno, quindi, l’ideale della comunicazione, che è quello di farsi capire dall’altro, da chi non è d’accordo, da chi è fuori dal proprio giro e invece si entra in un ambito di ricerca di consenso e di votazione. I like sono manifestazioni di appoggio come l’alzata di mano. Questa non è comunicazione. E’ impossibile, al  punto in cui siamo, rimettere dei filtri ma io reimposterei la questione in questo modo: se ciò che dici viene applaudito e raggiunge solo chi era già d’accordo con te non stai facendo nulla, né in termini di confronto né di crescita culturale, le tue idee non stanno circolando. Hai al contrario ridotto le tue possibilità. Quand’è che un post o un contenuto ha un grande effetto? Quando viene considerato e discusso da chi non sarebbe mai stato raggiunto. Già i ragazzi (ma anche gli adulti) dovrebbero essere educati a chiedersi questo: quello che dici può essere compreso anche da chi non è d’accordo con te? Quello è un segnale di buona comunicazione. Parolacce e aggressività sono invece solo segnali di chiusura. Accade ogni tanto che si esprima godimento perché uno sta “blastando un altro”, massacrandolo per dimostrare che ha ragione. Questa persona diventa il campione del branco: si torna a un mondo tribale di gruppi omogenei che hanno leader forti incaricati di combattere le tribù avversarie. Come nel mondo primitivo: piccoli villaggi con i loro guerrieri che combattono contro quelli del villaggio opposto. Il contrario del mondo comunicante e globalizzato aperto al futuro”.

Quali sono gli strumenti fondamentali per disinnescare il conflitto?
“Ce ne sono alcuni generali e alcuni che riguardano ogni singola persona. C’è bisogno innanzitutto di un’azione culturale di ampio respiro per rimettere a fuoco qual è il ruolo dei social e del web. Non sono il posto dove chiudere le questioni e mettere paletti definitivi alla conoscenza ma luogo dove ci si confronta e si ascoltano altre opinioni. Questo è il modo più proficuo di usare le conversazioni. Dal punto di vista personale, penso che sia importante imparare a parlare di ciò che veramente si conosce. Quando si discute bisogna ridurre il proprio perimetro ed essere sinceri, ammettendo quali sono le proprie competenze. Ci rende più autorevoli e interessanti. Fare i leoni quando non lo si è spinge a fare figuracce. Non bisogna, poi, nascondersi dietro autorità terze: “questo lo dice la scienza, questo lo dice la dottrina, questo lo dice l’Europa”. Meglio argomentare sempre. Non si può pensare che ci sia alcun tema concluso in sé, ma che ci sia sempre qualcosa da scoprire e da far emergere. Quando diciamo a qualcuno che è ignorante lo regaliamo a un populista. Ogni volta che chi ha una competenza rinuncia a intervenire regala un consenso a un populista. Perché il confronto sia efficace è importante riconoscere l’altro in modo positivo anche se ha scritto qualcosa di strampalato. Bisogna rispondere sulla base del suo ragionamento prendendolo molto sul serio anche se sbaglia, mostrandogli dove ha sbagliato. Questa è l’unica chiave per farsi ascoltare e ha un effetto culturale dirompente. Se tutti quelli che hanno competenze facessero questo lavoro paziente sui social si otterrebbero cambiamenti enormi. Ogni volta invece che qualcuno dice una stupidaggine sui social, le persone preparate si stizziscono e se ne vanno, gli ignoranti ne approfittano e litigano. Questo rovina il ruolo culturale del web che potrebbe invece essere diffondere sapere e conoscenze. Ovviamente questo richiede impegno e sforzo”.

Quando si è sotto attacco, e si viene quindi bersagliati in massa da commenti che mescolano insulti e offese che in gran parte prescindono completamente dal contenuto del post iniziale, come ci si comporta, bisogna stare lì o battere in ritirata?
“Come accade nei talk show televisivi, bisogna avere in mente non tanto l’interlocutore che abbiamo davanti che è polemico ed è lì apposta per questo, ma il largo pubblico che ci guarderà o ci leggerà. Dobbiamo insomma pensare all’enorme maggioranza silenziosa delle persone che leggono ma non intervengono; quelli che parlano sono i più polemici, ed è normale che stiano lì a litigare. Se ci si pone in questa prospettiva si possono fare scelte mirate. Per esempio si può scegliere di dare una sola risposta paziente che offra tutti gli elementi e poi lasciar correre. “Non capite niente, andate a studiare” non è una buona linea di condotta, neanche sotto attacco. La buona replica dovrebbe essere: ciò che penso è questo, le mie argomentazioni e le mie fonti sono queste, dopodiché lasciar andare. Così è possibile rendere un grande servizio alla maggioranza silenziosa che legge: è una dimostrazione che si può stare calmi e poi lasciar perdere. A volte fa bene un po’ di utopia: se avessimo un gran numero di persone sui social che si comportano in questo modo, il clima cambierebbe completamente. Il volto dei social muterà davvero solo se crescerà il numero di coloro che usano i social in maniera umanamente e culturalmente evoluta e danno il buon esempio. C’è bisogno di una specie di civilizzazione nel mondo digitale, perché le regole sono poco sedimentate. Questi media esistono da poco più di dieci anni. Solo da poco il loro utilizzo si è generalizzato. Siamo quindi ancora nella preistoria, e in quella vera in fondo c’era molta più violenza (fisica). Siamo nell’era della conversazione diffusa globale, c’è bisogno di civilizzazione, e può attuarla chiunque abbia voglia di prendersi questo impegno”.

Come si fa a uscire dalla “zona di sicurezza”?
“Dobbiamo ricordarci che cosa sono i social e perché ci stiamo. Se non ho l’obiettivo di aprirmi a nuove conoscenze, non riuscirò a gestire i conflitti. Quando mi confronto con chi ha un pensiero diverso dal mio, mi sforzo di trovare i dati migliori, le argomentazioni migliori, divento cioè più intelligente. Se invece rimango nella mia zona di sicurezza, con persone che sono già d’accordo con me, tendo ad usare parole chiave, concetti automatici, di cui già sono tutti convinti, e alla lunga mi impoverisco culturalmente. Daniel Pennac dice: una buona lettura ti può salvare da molte cose, soprattutto da te stesso. Se leggiamo buoni libri apriamo le nostre menti, scopriamo nuovi orizzonti. Un buon uso dei social funziona allo stesso modo: può essere il luogo dove scoprire nuove realtà e rafforzare la propria identità. Confrontandosi, infatti, si impara a conoscersi meglio. La sfida è dentro lo strumento. Non si tratta semplicemente di imparare a usarlo, di competenza tecnica. Il web è un posto nel quale stiamo, una piazza virtuale che non esaurisce tutto, ma una dimensione relazionale aggiuntiva. In quest’ottica ci si può chiedere: come vivo le relazioni sul web? In un modo che mi permette di aprire gli orizzonti, di crescere, di fare del bene oppure mi circondo soltanto di persone simili a me, e divento sempre più violento e aggressivo verso “gli altri”? La metafora del web come ambito relazionale è quella che più mi aiuta a capire come alla base ci sia un problema culturale ed educativo prioritario e urgentissimo di cui famiglia, scuola e comunità cristiana devono occuparsi. In che modo ci mettiamo in relazione con la tecnologia digitale? Che cosa costruiamo? Sono domande fondamentali”.

Non dobbiamo perdere di vista l’orizzonte. Quali sono le prospettive per il futuro nell’uso dei social?
“Spesso ci accontentiamo dell’offline. In famiglia la strategia minima è facciamo in modo che si spengano i cellulari. Ma poi l’online come l’affrontiamo? Anche qui ci vuole una linea educativa. Che significa usare in modo felice whatsapp, facebook o instagram? Queste possono essere anche domande pastorali, che finora abbiamo un po’ trascurato. E’ il momento ora di occuparsi di questa grandissima fetta della vita quotidiana delle persone. Bisogna cercare delle strade: come quando i missionari si spostarono in nuove terre e incominciarono a incontrare persone nuove. Allo stesso modo bisogna ora individuare il modo giusto di portare qui lo sviluppo sociale, la cultura, l’umanità, la fede. Adesso vediamo che la gente tira fuori il peggio di sé proprio perché ci sono meno filtri. Vengono fuori gli istinti più bassi delle persone perché si sentono protette dallo schermo. Rendono più evidente il lato oscuro che c’è dentro ognuno di noi. Bisogna imparare a mettersi in discussione, anche se confrontarsi costa. Conoscere è sempre una piccola umiliazione”.