Ha un titolo amabilmente ironico (Epistola di Paolo ai milanesi. Un apocrifo per il terzo millennio. Migrazioni, istituzioni e religioni) un recente volumetto firmato da Paolo Branca, docente di Lingua e Letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, profondo conoscitore sia della storia passata, sia della situazione attuale dell’Islam. In questa sua «lettera» (Cittadella Editrice, pp. 48, 2 euro) Branca prende in esame senza abbellimenti retorici lo stato dell’arte del dialogo interreligioso, soprattutto per quanto attiene ai rapporti delle istituzioni civili e della Chiesa italiana con i musulmani.
«L’atteggiamento complessivo della Chiesa cattolica è cambiato, nel recente passato – afferma Paolo Branca -: molto opportunamente, non si tende più a fare opera di proselitismo nei riguardi dei non cristiani, quanto a testimoniare in positivo il contenuto del messaggio evangelico. A un primo livello, tale testimonianza si attua con la vicinanza e l’aiuto ai tanti immigrati, musulmani e no, presenti in Italia. Poi, però, c’è un secondo livello, che riguarda la spiritualità delle persone che incontriamo, anche se appartengono a un’altra religione o a nessuna religione. Questo, sul presupposto che la dimensione della spiritualità connoti essenzialmente l’essere umano. È proprio qui, a mio avviso, che emerge una serie di problemi: in molti casi, si ha l’impressione che la presenza di esponenti di altre fedi negli ambienti ecclesiali – negli oratori, per esempio – sia più o meno benevolmente tollerata ma non valorizzata (cosa che, per inciso, farebbe molto bene anche agli adolescenti cattolici: un confronto rispettoso con i seguaci di un’altra religione potrebbe indurli a riappropriarsi consapevolmente dei contenuti della loro stessa fede, del “Credo” che professano o dicono di professare). Certo, qualcuno obietterà: perché dovremmo occuparci attivamente dei musulmani, dal momento che loro non sembrano granché interessati a noi?».
È l’annoso problema della reciprocità tra i Paesi dove il pluralismo religioso è effettivamente garantito e quelli a grande maggioranza islamici.
«Vorrei però ricordare che l’unico Paese islamico in cui non è possibile non solo costruire delle chiese ma anche distribuire delle Bibbie o dei rosari è l’Arabia Saudita, che peraltro si è vista recentemente assicurare sia dall’attuale presidente degli Stati Uniti, sia da noi europei ingenti forniture d’armi (c’è una contraddizione patente, dunque, tra gli interessi materiali che in Occidente perseguiamo e i valori che proclamiamo, senza che le parole siano accompagnate dai fatti). Negli altri Paesi di tradizione islamica ci sono delle chiese, talvolta capaci anche di accogliere migliaia di persone: negli Stati che si affacciano sul Golfo Persico sono numerosissimi i cattolici, immigrati dalle Filippine o da altri luoghi, e a loro è garantita la libertà di culto. Si potrebbe aggiungere che, in alcune aree del Medioriente, la sopravvivenza di antiche confessioni cristiane è stata resa possibile proprio dalla tutela islamica, perché altrimenti queste comunità avrebbero finito per essere “risucchiate” da Roma o da Bisanzio. Può sembrare paradossale che proprio l’islam abbia favorito il pluralismo religioso in tali regioni, ma storicamente è andata proprio così. È abbastanza noto, del resto, come le chiavi del portone della Basilica del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, siano state date in custodia fin dall’epoca della dominazione ottomana a una famiglia islamica, incaricata di prevenire scontri fisici e altri episodi incresciosi tra i cristiani di diverse denominazioni, all’interno della chiesa».
Ancora riguardo alla situazione italiana: dove si segnalano gli aspetti più critici, nel rapporto con i musulmani?
«Pensiamo alle carceri, agli ospedali, o agli hospice per malati terminali: da noi, un musulmano non può ricevere assistenza spirituale da un imam, per esempio, perché non si è ancora sottoscritta un’intesa tra i rappresentanti delle comunità islamiche e lo Stato italiano. Per chi si professa cristiano, non dovrebbe risultare irrilevante che delle persone comunque credenti in Dio abbiano la possibilità di coltivare la loro dimensione spirituale, anche e soprattutto in situazioni difficili come la malattia o la prossimità alla morte. In molti altri Paesi, del resto, l’assistenza religiosa in contesti analoghi è svolta da équipe interconfessionali di cui fanno parte preti cattolici, pastori protestanti, rabbini e imam. Ma torniamo a un’istituzione capillarmente diffusa in tutto il territorio italiano, ovvero l’oratorio. Ogni anno, avvicinandosi il Natale, si ripropone l’episodio penoso di qualche preside che vieta di allestire un presepe all’interno della scuola per “non urtare la sensibilità” degli alunni musulmani. Poi, se andiamo a esaminare la situazione nell’arcidiocesi di Milano, scopriamo che il 25 per cento dei bambini e degli adolescenti che frequentano gli oratori appartengono a famiglie di fede islamica: i genitori vedono con favore la cosa, perché sanno che gli oratori sono degli ambienti “protetti”, dove si rispettano determinate regole e principi morali. Così, i ragazzi e le ragazze musulmani si trovano a giocare e a fare i compiti con i loro coetanei cattolici, il che è senz’altro positivo. Però, si ha l’impressione che manchi ancora qualcosa».
E cioè?
«La parola “oratorio”, in senso etimologico, indica un luogo preposto alla preghiera, oltre che alla socializzazione e allo svago. Io mi domando: perché non offrire anche gli adolescenti musulmani che regolarmente frequentano queste realtà un ambiente per pregare, delle opportunità per parlare dei contenuti della loro fede? Formulando questa proposta, mi sono talvolta sentito rispondere che così si correrebbe il rischio di cadere nel “relativismo”. Io ritengo, invece, che il motivo per cui non i musulmani in quanto persone, ma la loro religione ci preoccupa tanto, è che essa ci rimanda – come uno specchio – la nostra immagine attuale. Abbiamo paura di un confronto serio con l’islam perché noi non sappiamo più chi siamo, in che cosa effettivamente crediamo; abbiamo perso per strada la nostra identità culturale e religiosa. Le porto un esempio: a lezione, mi capita spesso di elencare i personaggi biblici che vengono menzionati anche nel Corano, da Abramo/Ibrahim a Gesù/Issa, e aggiungo che un’intera sura, la XII, è dedicata a Giuseppe/Yusuf; ebbene, molti miei studenti, anche cattolici praticanti, pensano che si tratti di san Giuseppe, lo sposo di Maria, poiché non sanno nulla della storia del patriarca Giuseppe, narrata dal capitolo 37 al 50 di Genesi. Tra questi studenti, c’è chi segue dei corsi di Letteratura tedesca e però ignora totalmente che questo stesso racconto biblico ha ispirato una monumentale tetralogia di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli».
Per quanto concerne i rapporti istituzionali con l’islam, qualche mancanza non va addebitata pure alla «controparte»? Anche a Bergamo, per esempio, si fa fatica a capire chi davvero sia autorizzato a rappresentare le diverse comunità islamiche presenti sul territorio.
«Nel mio libretto, in effetti, io muovo delle critiche piuttosto dure anche ad alcuni esponenti e gruppi dell’islam italiano. In molti casi, tuttavia, all’assenza di interlocutori credibili da parte musulmana si accompagna una sconcertante superficialità dei nostri politici: ci sono leader parolai che mettono il “no alle moschee” al primo punto del loro programma e altri che dichiarano di vedere con favore la costruzione di nuovi edifici di culto islamici, ma non si preoccupano poi minimamente di verificare l’identità e l’affidabilità dei gruppi che vincono i bandi pubblici o finanziano i progetti. Per quanto attiene all’individuazione di “interlocutori credibili” si pone, comunque, una questione di fondo. L’islam, come è noto, non ha mai avuto né un clero, né una precisa organizzazione gerarchica. Spingere questa religione a camuffarsi per rientrare a tutti costi nei nostri parametri e schemi di pensiero, non è saggio; pretendere dalle comunità musulmane che nominino un gruppo ristretto di loro “rappresentanti ufficiali” contribuisce ad aumentare la confusione. Occorre un grande sforzo di conoscenza e discernimento, quando si va in cerca dei famosi “interlocutori”: un conto, per esempio, è chiedere di patrocinare una certa iniziativa alla regina Rania di Giordania, figura che dà le massime garanzie a livello internazionale; un altro è scegliersi come partner degli italiani neo-convertiti che hanno abbracciato l’islam in chiave “antagonista”, dopo essere passati per esperienze più o meno frustranti nelle file dell’estrema destra o dell’estrema sinistra».
Vogliamo chiudere con una nota di speranza? Nella sua «epistola», lei afferma che un cambiamento in positivo potrebbe venire a opera delle donne musulmane.
«Mediamente, in tutto il mondo, le ragazze si dimostrano più mature dei loro coetanei. Studiano con maggior impegno, ottengono risultati scolastici spesso migliori dei maschi. Le immigrate musulmane sono ancora più motivate in questo senso: sanno che, proseguendo gli studi, avranno più possibilità di emanciparsi, di non vedersi imporre dai genitori un particolare marito, di non dover fare le casalinghe a vita e così via. Questo grande “potenziale rosa” sta già dando dei risultati: molte ragazze musulmane sposano degli italiani senza pretendere da loro che previamente si convertano (o fingano di convertirsi) all’islam, come vorrebbe la tradizione. Queste donne, se mettono il velo, lo fanno per libera scelta; ci sono anche casi di ragazze madri che a loro tempo hanno scelto di non abortire e non sono comunque state affatto ripudiate dalle famiglie di origine. Persino in Arabia Saudita, il Paese in cui è radicata la versione più “legalista” e conservatrice dell’islam, le donne hanno recentemente ottenuto di poter guidare un’auto. Sì, sono convinto che proprio dal versante femminile potranno arrivare altre novità positive, in futuro».