Si avvicina il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e mai come quest’anno il tema delle molestie e degli abusi è stato portato a forza sotto le luci della ribalta: merito dell’ondata di segnalazioni e denunce partite dal mondo dello spettacolo e dello star system, americano prima e ora anche italiano. Dalle accuse al noto produttore Harvey Weinstein a quelle al regista italiano Fausto Brizzi, per arrivare infine alla campagna social #metoo lanciata in rete per raccogliere le testimonianze di molestie subite anche da donne comuni, il tema continua a far discutere. Non se n’è mai parlato così tanto, eppure non ci si è mai sentite così sole in una battaglia che dovrebbe essere comune, e non esclusivamente femminile.
Estremamente sole, perché a fronte di ogni segnalazione di molestia, il primo a sollevarsi non è mai lo sdegno: è sempre lo scetticismo. “Sarà poi vero, eccone un’altra, mo’ tutte molestate ‘ste donne?”. Come se denunciare la molestia sia una moda o un vezzo. Dopo lo scetticismo ci sono il sogghigno e il tono saputo da chi sa come funziona il mondo: poi vengono le accuse, le analisi, l’indifferenza. Già, perché quando una cosa non si può negare allora diventa un fenomeno di costume, qualcosa di astratto su cui costruire teorie, interpretazioni e dissertazioni infinite che si concludono poi sempre con un autorizzato volgersi dall’altra parte perché “abbiamo fatto il nostro dovere, ne abbiamo parlato”.
Ma a cosa serve il parlarne, se poi non si traduce in pratica quotidiana? A cosa serve, se sotto sotto passe sempre l’idea sottile e perversa secondo cui un po’ ce la cerchiamo, a volte inventiamo le molestie per farci notare, spesso tentiamo i poveri uomini incapaci di resistere, e nella maggior parte dei casi comunque apprezziamo certi trattamenti?
Sono una donna. Sono giovane, anziana, bella o brutta: non importa. Sono casalinga, attrice, segretaria, studentessa: non importa. Sono italiana o straniera: nemmeno questo importa. Sono donna, però: questo sì che importa. Sono donna e ho imparato presto a soffocare nella vergogna colpevole lo schifo per mani che mi toccano senza permesso, sentendosi sempre autorizzate. Sono donna e ho dovuto imparare che non posso pretendere niente se mi metto una gonna corta per uscire, anzi, sotto sotto la metto perché voglio certe cose. Così dicono sempre, sollevando le spalle. E se invece metto i pantaloni e la felpa? Allora ne ho bisogno, dicono: ci pensano loro a farmi sentire femmina per davvero. Sono donna e ho imparato che tante porte sono sbarrate, se dico di no a certe cose: ma è lecito che me le chiedano, dicono, è normale. Sono io che non capisco, che me la tiro, che non so come va il mondo: rimani una “signora Nessuno” allora, dicono. Non importano gli studi, il cervello, le capacità: quelle di una donna forse contano meno, in questa società malata? Forse sì. Sono donna e ho imparato che se da “signora Nessuno” sono diventata una “signora Qualcuno” – un’attrice magari, una donna in carriera – allora non ho diritto di denunciare abusi e molestie, perché è “grazie a quelli” che sono arrivata fino a qui, dicono. Perché “mi piaceva”, dicono.
Dicono sempre che a noi sotto sotto piace. Avessero mai guardato una volta le lacrime, le vite lacerate, i pezzetti ricuciti assieme nel silenzio e nell’umiliazione. Avessero mai ascoltati i silenzi umiliati, la paura, la vergogna. Dicono sempre che a noi sotto sotto piace: ma ce l’avessero mai chiesto una volta, una sola volta, se ci piace davvero così tanto.
Non si può parlare di abusi e molestie come se si trattasse di una perenne lotta di genere, femmine contro maschi, buone contro cattivi, vittime contro predatori. Non lo è né lo sarà mai. Uomini e donne devono essere complici in una battaglia che passa dall’educazione in casa e a scuola, da politiche lavorative inclusive, da una quotidianità in cui non sia considerato normale toccare il sedere alla cameriera del bar, dare della “zoccola” ad una ragazza in minigonna o denigrare come “facili” le donne che si costruiscono una posizione lavorativa. Ma allora, in vista di questo 25 novembre, mi chiedo dove siano realmente gli uomini in questa battaglia. Mi chiedo perché l’hashtag #Ihave – un narrazione dell’abuso al maschile, con cui alcuni uomini hanno raccontato i propri comportamenti prevaricatori su una donna – abbia avuto un così blando seguito. Mi chiedo perché tante volte, anche tra amici, prevalgano le spalle alzate con indifferenza, talvolta quasi con fastidio, come se parlare di molestie sia una sorta di capriccio tutto femminile per attirare l’attenzione. Perché se ne sentono chiamati fuori, come se dopotutto fosse solo un “problema nostro”?