La memoria, la razza e il peso specifico delle parole

Quando Albert Einstein nel 1933 sbarcò negli Stati Uniti per trasferirvisi definitivamente, compilando i moduli dei funzionari portuali di New York, che chiedevano a quale razza appartenesse rispose così: “All’unica che conosco, quella umana”. E’ curioso il tempismo della polemica nata in questi giorni di fronte all’affermazione di Attilio Fontana, candidato del Centrodestra alle elezioni regionali in Lombardia, sulla necessità di tutelare la “razza bianca”. Accade proprio nel pieno delle commemorazioni legate alla “Giornata della memoria”, che ogni anno in questo periodo ci riportano davanti agli occhi le immagini terribili dell’Olocausto. Fontana, da parte sua, ha già spiegato che si è trattato di uno “spiacevole errore”, di un “lapsus espressivo”, di uno scivolone, scusandosi pubblicamente. Ciò che ci interessa ora non è entrare nel merito del polverone politico che si è sollevato – in un clima pre-elettorale già caotico e incandescente – ma considerare la parola in sé, che non è neutra, con tutto ciò che evoca. E’ un termine che porta un considerevole carico di sangue e di fantasmi, e il più pesante è proprio quello di Adolf Hitler: “Gli stati attuali, che pensano solo ad un onere finanziario, concedono la cittadinanza senza tenere in considerazione la razza. Essere cittadino tedesco è diverso dall’avere in sangue la razza tedesca.” E ancora ci vengono in mente le “Leggi razziali” di Mussolini e Vittorio Emanuele III, quell’accento sulla “pura razza ariana” da preservare dalla contaminazione giudaica perché (sempre Hitler) “In creature fornite di un forte istinto di razza, la parte rimasta pura tenderà sempre all’accoppiamento fra eguali, impedendo un’ulteriore mescolanza. E con ciò gli elementi imbastarditi passano in secondo piano, a meno che essi non si siano così tanto moltiplicati da impedire la riaffermazione della razza pura”. E poi, ancora, la schiavitù legittimata dall’inferiorità della “razza nera”, l’Apartheid in Sud Africa, la follia del Ku-Klux-Klan. Le parole hanno un peso. Non è un caso che questa, in particolare, sia stata eliminata nel 2014 dalla costituzione francese e da tutti i documenti pubblici, per iniziativa dell’Assemblea Nazionale. L’Italia non ha seguito l’esempio, l’articolo 3 della nostra Costituzione mantiene questo termine, anche se con chiaro intento anti-discriminatorio: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Nel frattempo, però, l’utilizzo superficiale e avventato che a volte se ne fa (è accaduto in questi giorni, ma non solo) è un monito: dimostra prima di tutto che la Giornata della memoria non è soltanto una “formalità” priva di significato, come alcuni ritengono. In secondo luogo richiama la necessità di un impegno serio in ambito culturale ed educativo a far comprendere – prima di tutto – la natura delle differenze e somiglianze tra società e culture: l’ignoranza e l’oblio sono un terreno fertile per nuovi mostri e nuovi orrori, e gettano polvere su decenni di resistenza civile e di lotta per i diritti umani. Le parole hanno un peso, possono scatenare incendi.  Non ci sembra che la necessità o il desiderio di vincere le elezioni ne giustifichino – in alcun caso, da qualunque parte vengano – un utilizzo “leggero”.