Roncalli cappellano militare nella Prima Guerra Mondiale: “un patriota cristianamente ispirato”

Le doti pastorali di Roncalli, unite alla non comune capacità di incontrare le persone, gli hanno permesso di accostare gli ambienti più lontani. Uno di questi era costituito dall’esercito italiano, dal quale erano stati allontanati i cappellani militari a causa della questione romana, sorta con la fondazione del Regno d’Italia e la soppressione dello Stato della Chiesa nel 1870. Dopo alcuni decenni di protesta, all’inizio del Novecento si rafforza nel mondo cattolico il desiderio di legittimazione e di reinserimento nello Stato Italiano, avvertito ormai come la Patria comune. I cattolici sono convinti di essere portatori di un autentico patriottismo, che contrasta due pericolosi eccessi: l’internazionalismo socialista, che dichiara superato l’amor patrio; e il crescente nazionalismo, che mira al predominio sugli altri popoli. Allo scoppio del primo conflitto mondiale, Roncalli accetta l’entrata in guerra dell’Italia. Non è interventista, cioè non sollecita l’intervento italiano, come fanno don Sturzo e Mazzolari, tuttavia riconosce la pertinenza dei diritti italiani su Trento e Trieste, da lui stesso definiti come: «richieste modeste e universalmente riconosciute».  In secondo luogo l’adesione alla guerra viene ritenuta un dovere in forza del principio, fortemente avvertito dalla cultura intransigente, di sottomissione e di obbedienza nei confronti delle legittime autorità. Investite di un’autorità divina, ad esse si riconosce quel «principio di presunzione» che delega loro il compito di stabilire la giustezza di una guerra. Questi due motivi inducono Roncalli a svolgere con convinzione il compito di cappellano militare. Scrive nei giorni dell’arruolamento: «Intesi subito una letizia interiore di poter mostrare a fatti come io sacerdote sentivo l’amor di patria, che poi non è altro che la legge della carità applicata giustamente» [A. Roncalli-Giovanni XXIII, Io amo l’Italia. Esperienza militare di un papa, Libreria Editrice Vaticana, 2017, pp. 94-95]. Queste espressioni del 1915 possono lasciare perplessi se confrontate con quelle della Pacem in terris  del 1963, ma ci aiutano a cogliere l’anima conciliatorista di Roncalli, mirante alla soluzione del grave dissidio tra Chiesa e Stato, fonte di innumerevoli crisi di coscienza e di abbandoni della fede. Roncalli ritiene che un patriottismo cristianamente ispirato sia un passo obbligatorio perchè la causa cattolica ricuperi il molto terreno perduto nella coscienza degli italiani. Testimonia della sua apertura al mondo, per avvicinarlo e comprenderlo, anche se l’opera di discernimento di fronte ad un fenomeno complesso come la guerra comporta dei rischi. Tuttavia Roncalli accetta la sfida e si impegna a fondo non solo nella cura dei militari feriti, compito assegnatogli in qualità di cappellano della sanità, ma anche nell’assistenza alle migliaia di militari di stanza a Bergamo in procinto di essere inviati sul fronte, curando la messa del soldato,  celebrata ogni domenica in S. Spirito con grande successo, fondando la Casa del Soldato di Città Alta, per offrire sani momenti di svago ai militari in libera uscita ed organizzando molte altre manifestazioni religiose. In una parola, Roncalli è l’anima della pastorale dei militari a Bergamo. Purtroppo si accorge di essere quasi solo. In molta parte del clero vi sono forti resistenze ad impegnarsi pastoralmente per i militari. Scrive nel gennaio del 1917: «Nel pomeriggio di ieri constatando insieme con Don Clienze Bortolotti [direttore dè L’Eco di Bergamo] il poco che si fa dai nostri pur zelanti confratelli per avvicinare e beneficare moralmente i soldati residenti in Bergamo, il mio interlocutore aggiunse che “anzi si criticano spesso e volentieri i pochissimi che si interessano dei soldati, compresi don Clienze e don Roncalli”». Roncalli prova grande amarezza, ma ha troppe motivazioni spirituali e pastorali per arrendersi: «La scuola di luminosi esempi cui sono stato educato accanto al mio vescovo defunto: le mie stesse disposizioni spirituali, le profonde convinzioni che parevami di essermi formate in questa materia, non devono bastarmi ad immunizzarmi da questi turbamenti?». Da queste parole emerge la convinzione che ogni ambiente deve essere accostato da un vero pastore. Questo impegno viene pubblicamente riconosciuto dai militari, presso i quali Roncalli guadagna grande prestigio. Se ne ebbe una prova nel luglio del 1918, quando l’autorità militare decise di riservare il Ricovero Nuovo [detto popolarmente La Clementina] per i prigionieri italiani, affetti da tubercolosi o comunque in gravi condizioni, rilasciati dall’Austria. Il 19 luglio Roncalli ricevette dal Direttore degli ospedali la richiesta di provvedere all’assistenza religiosa e morale di questi soldati. Roncalli aderì prontamente alla proposta, che non era priva di rischi per il pericolo di contagio: «Sento il dovere e il bisogno di esprimere anche per iscritto la mia riconoscenza per la profferta fattami oggi, della assistenza religiosa e morale ai nostri soldati tubercolosi reduci dall’Austria ed accolti per cura nel “Ricovero Nuovo”. Nulla di più gradito per me: perchè nulla di più conforme alle alte e nobili idealità del mio ministero, ed al mio personale sentimento di pietà verso questi poveretti che sono pure nostri fratelli, tanto più degni di cure e di attenzione, perchè più di tutti hanno sofferto per la patria». Nonostante «il pericolo di contrarre la malattia serio, le limitazioni che mi dovrò imporre non poche», seppe mantenersi calmo e sereno attribuendone il merito all’aiuto divino nel quale poneva interamente la sua fiducia. Erano più preoccupati gli altri che l’interessato, al quale veniva affidata non solo l’assistenza religiosa, ma anche morale del più grande ospedale militare di Bergamo che contava circa 1000 letti. [Roncalli-Giovanni XXIII, Io amo l’Italia, pp. 6-8].