I Mondiali di calcio insegnano: anche nella vita vera è vietato vivere di ricordi

Se sia lo sport una metafora della vita o se sia la vita che a volte trasmette i suoi insegnamenti attraverso lo sport è una questione intricata, filosofica, marzulliana. Prendiamo per vere entrambe le ipotesi per formulare una premessa più generica, ma comunque verosimile: ciò che accade nello sport può insegnarci molto anche nel nostro vivere quotidiano, sia nelle piccole cose che in quelle grandi. In queste settimane per sport non possiamo che intendere i Mondiali di calcio in corso in Russia. L’evento che ha suscitato scalpore e che ci obbliga a riflettere è l’eliminazione della Germania dalla competizione, quando ancora sono in gioco tutte e 32 le squadre. La sconfitta con la Corea del Sud è stata fatale ai Campioni del Mondo uscenti. Ecco, lo scalpore non deriva solo dal fatto che ad uscire sia stata la corazzata tedesca, non solo per il fatto che tutto sia avvenuto nella fase a gironi e non soltanto perchè il girone era abbordabile; la sorpresa sta nel constatare che negli ultimi cinque mondiali, quattro volte i campioni del mondo uscenti (Francia 2002, Italia 2010, Spagna 2014 e Germania 2018) hanno salutato la competizione successiva in modo precoce. Un caso? No. Se due indizi fanno una prova, figuriamoci quattro. E allora, cosa succede? Se è vero che lo sport è un riflesso della vita “reale” che si snoda tra politica, economia, società, tecnologia ecc ecc ecc… allora non si può fare a meno di constatare che anche nello sport come nella vita del terzo millennio non si può più vivere di ricordi, non ci si può più adagiare sugli allori, non si può più fare affidamento su forze vecchie, sazie, con poche motivazioni. Ciò che manda avanti un’azienda – e una squadra di calcio – è la capacità di sapersi innovare, per trovare nuovi stimoli, per anticipare gli avversari, per farsi trovare pronti ai cambiamenti esterni sempre più repentini, per evitare di vivere di successi passati che, si sa, sono i primi avversari. L’accostamento con la grande crisi che ha colpito il mondo intero nel 2008 è immediato: chi ha saputo adattarsi, chi aveva messo da parte qualche risorsa, chi si è innovato, è rimasto in piedi mentre chi aveva vissuto alla giornata, chi aveva sperperato, chi aveva creduto di poter andare avanti per sempre con la stessa squadra e lo stesso “gioco”, è caduto. Rovinosamente. Del resto la qualità più grande di cui è stato dotato l’uomo da Madre Natura, sin dalle sue origini, è la capacità di adattamento, di sviluppo, di innovazione, di scoperta, di ricerca del progresso, di novità, di spirito di sopravvivenza si potrebbe dire. Altrimenti cammineremmo ancora su quattro zampe o forse cadremmo. Rovinosamente. Ritirare fuori anche in questo caso il ritornello del “date spazio ai giovani” forse è banale, riduttivo, stereotipato ma in un certo senso è così. Date spazio ai giovani, se i meno giovani non sanno innovarsi (e se le nuove leve hanno meriti da vendere). Il che non vuol dire dimenticarsi di chi ha “tirato la carretta” fino ai giorni nostri, ma vuol dire dare ad ognuno il ruolo che gli spetta ad ogni istante. I meno giovani in regia, i giovani in prima linea, in campo, attivi. Altrimenti si vive di vittorie momentanee e si passa poi il resto della vita – o della carriera – a lucidare le medaglie e a leccarsi le ferite per le “cadute”. Anche rovinose.