Oro rosso. L’inchiesta che denuncia sfruttamento e abusi subiti dalle braccianti

Un’inchiesta che dà voce all’esercito invisibile di donne – italiane e migranti – che lavorano come braccianti: Stefania Prandi, giornalista sempre in prima linea per quanto riguarda le questioni di genere, ne parla nel suo libro “Oro rosso – fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” (Settenove Edizioni, pp 112, 14 euro), affrontando la questione mettendo in luce non solo lo sfruttamento economico, ma anche le violenze sessuali che queste lavoratrici subiscono.

Tematiche poco – se non per niente – affrontate a livello mediatico, marginalmente a livello accademico. Un’inchiesta durata due anni, tra l’Italia, la Spagna e il Marocco, e che ha portato a raccogliere oltre 130 interviste parlando con braccianti, ricercatori, sindacalisti e attivisti di diverse associazioni.

Le tappe di un’inchiesta durata due anni

Prima tappa, Palos de la Frontera, il più grande giacimento di fragole e frutti rossi d’Europa, dove quest’anno circa 18 mila marocchine raccolgono i frutti rossi. Poi l’Italia, tra la Sicilia (zona Vittoria, dove si stima che 5 mila donne rumene lavorino per la raccolta dei pomodori) e la Puglia, tra le zone di Bari, Brindisi e Taranto. Ultima tappa Souss-Massa, in Marocco, la più grande area del Paese coperta da serre, destinata alla raccolta di ortaggi e frutta per il mercato estero. Donne spagnole, marocchine, italiane, rumene, bulgare, polacche, tutte accomunate da uno stesso destino.

L’autrice prima di andare sul campo, ha svolto un lavoro preparatorio di tre mesi prima di ogni tappa per cercare contatti sul territorio, per non mettere a rischio sia la propria incolumità che quella delle braccianti, avvalendosi dell’aiuto di guide speciali, come Mohamed Bouchelka, professore di geografia rurale e sociale presso l’Università di Agadir, di interpreti, di attivisti e per alcune zone dei sindacalisti della Flai Cgil. Solo in Puglia, secondo la Flai Cgil, ci sono circa quaranta mila braccianti donne gravemente sfruttate e retribuite trenta euro per lavorare 10 ore continuative nella raccolta delle fragole o dell’uva.

“Le donne subiscono un doppio sfruttamento – spiega Prandi -: è vero che ciò avviene anche in altri settori, ma qui in maniera capillare. Sono sottopagate e pagate meno degli uomini che svolgono le stesse mansioni, ma oltre allo sfruttamento economico sono sottoposte alla violenza fisica. Una violenza che viene fatta loro con l’unica prerogativa di mantenere il posto di lavoro: se le avances sessuali dei loro capi vengono rifiutate, saranno infatti licenziate o costrette a cambiare lavoro”. E per molte questo lavoro è l’unico reddito familiare, senza contare che denunciare abusi di questo tipo non è affatto semplice: vi è ancora lo stigma secondo cui queste donne “se la sono andata a cercare”, la burocrazia che richiede una certa quantità di prove valide per dimostrare la violenza subita, il fatto che la loro parola di lavoratrici sarebbe sempre messa in dubbio rispetto a quella del padrone e che i processi costino troppo.

L’impossibilità di denunciare il male subito

Chi ha avuto la forza di denunciare, si è ritrovata spesso con denunce cadute nel vuoto: come Kalima, marocchina, di cui Prandi ha raccolto la testimonianza: è andata al vicino commissariato di Moguer per denunciare le ripetute violenze di Abed, il supervisore marocchino che dorme all’interno della proprietà. Una volta arrivata in ospedale, hanno verificato che vi erano delle lesioni parziali, prova delle violenza subita, ma non vi era la traccia organica. Le hanno detto che sarebbe stato un caso difficile da vincere proprio per la mancanza di prove valide. Avendo tre figli e un marito infermo, è dovuta ritornare in Marocco, mentre Abed ha continuato a lavorare nella stessa azienda agricola.

“Il quadro che ne è emerso – conclude Prandi – è che si può parlare di un fenomeno diffuso, rispetto a determinati territori. Molte donne sono spesso semi – analfabete, ciononostante sono coscienti di ciò che succede loro, ma non hanno il supporto né della società civile né delle istituzioni per poterne uscire. Sono sì delle vittime, ma allo stesso tempo mettono in atto delle strategie di resistenza: c’è chi scaccia il padrone, chi difende le altre donne dagli abusi”.