“Esattamente quattro anni fa, più o meno a quest’ora, uscivo di casa sbattendo la porta dopo aver litigato con mia madre. Avendo sentito del bisogno di insegnanti di italiano volontari per l’arrivo di alcuni rifugiati a Sotto il Monte, si era messa in testa che ci dovessi andare ad ogni costo. Non mi andava, ero svogliata e senza alcuno stimolo ad investire il mio tempo con persone sconosciute e in un ambiente del tutto estraneo; ricordo di averle detto “Non ti lamentare, poi, se rimango indietro con gli esami di Lettere Classiche””. Inizia così l’esperienza di Chiara Capelli, 27 anni, di Sotto il Monte, come volontaria nel Centro di Accoglienza del Pime (ora non più in funzione da luglio a causa del decreto sicurezza, i suoi ospiti sono stati trasferiti al Gleno, ndr). Un’esperienza che darà una svolta alla sua vita, permettendole di toccare con mano una realtà conosciuta solo attraverso i media: “Mi sono trovata a relazionarmi con persone provenienti quasi da un universo parallelo rispetto al mio. Fino a quel momento, loro erano solo “quelli che partono dalla Libia e arrivano a Lampedusa”. Giorno dopo giorno, il mosaico acquistava un pezzettino in più: mi trovavo di fronte non più una massa indistinta di cui non ricordavo nemmeno i nomi, ma tante persone che riponevano in me la loro fiducia” racconta. E prosegue: “Vedere una fiducia così grande nei miei confronti mi ha colpita e mi ha spinta a dedicarmi a tempo pieno, andando anche oltre il ruolo dell’insegnante”. Chiara per questi ragazzi diventa presto un punto di riferimento: non è più solo la “maestra”, ma anche un’amica con cui parlare non solo di temi legati alla scuola, ma anche della propria famiglia, o dei propri problemi. Dopo un anno come volontaria, viene assunta dalla Cooperativa Ruah, per cui lavora come insegnante fino a dicembre 2018. Non solo lezioni, ma anche un’immersione nella cultura e tradizioni degli ospiti presenti nella struttura: “Ho vissuto da vicino un mese di Ramadan, ho ascoltato il richiamo alla preghiera serale, ho imparato a rispettare e a comprendere i ritmi di ogni cultura diversa dalla mia. Ho capito che chiacchierare con degli africani all’orario di cena e poi andarsene senza cibo è un’offesa considerevole e che mangiare il riso con le mani in certi casi non è maleducazione, ma condivisione”. Spesso sono gli stessi ragazzi a insegnare qualcosa a Chiara, come quando lei chiede di disegnare la piantina di Sotto il Monte: ”Tralasciando la spropositata grandezza del campo da calcio rispetto a tutto il resto, che fa ben capire il grado di importanza attribuitogli, al momento di disegnare il cimitero, ho messo sul tavolo i grigi, i neri e le matite e mi hanno chiesto perché avessi messo via i colori. Gli ho detto che la morte è una cosa triste e che su una mappa il cimitero dovrebbe essere una macchia quasi incolore, dal mio punto di vista. “Maestra, loro adesso sono morti, ma prima erano delle persone contente, erano colorati”. E conclude: “Sono stati 3 anni pieni di vita, 218 persone in più di 20 classi diverse. Non è stato un lavoro, ma un’inclinazione che era nascosta in me e che con una naturalezza disarmante ha preso il sopravvento. Non è stato un luogo, ma un Centro di Accoglienza che mi ha davvero accolto a braccia aperte ogni volta che ne ho avuto bisogno. Le persone che hanno lavorato con me non sono state solo dei colleghi, ma una famiglia. Ecco, io auguro ad ognuno di trovare quel sole che mi ha accompagnato ogni giorno per tre anni, anche quando le nuvole sono state tante e molto scure. Lo auguro a tutti, ma ancora di più a chi nei confronti di tutto ciò è tanto scettico quanto lo ero io fino al 31 Agosto del 2015. Cosa mi resta? L’ho chiesto ai miei ragazzi e mi hanno risposto “Con noi qui avrai sempre delle persone che potrai chiamare famiglia e un posto che potrai chiamare casa”.