Grazie, cari dottori!

Tutto fermo. Chiese vuote. Oratori vuoti. Certo è viva la preghiera. Da quando sono prete non ho mai dedicato tanto tempo, in Quaresima, alla preghiera personale e alla meditazione dei testi quaresimali e della Passione del Signore come quest’anno. Tempo prezioso, certo, anche se, sinceramente, rivorrei subito le mie attività quotidiane, seppur un po’ più diluite nel tempo settimanale.

Vorrei fare la preghiera di Quaresima con i bambini, leggere le riflessioni degli adolescenti sulla Via Crucis, predicare a una comunità riunita la mattina o la sera e non ai banchi. Ma occorre pazienza.

Vado a trovare papà, medico. I ritmi di mamma, medico anche lei

Venerdì pomeriggio. Come da 10 anni, dopo pranzo, in pausa caffè, vado a trovare papà nello studio medico, che si trova nella parrocchia confinante a quelle dove io esercito il mio ministero. Sulla scrivania, le 20 mascherine che l’ATS gli ha consegnato, insieme a una confezione di guanti. Sono le contromisure al Coronavirus.

È un tempo durissimo, questo, per i medici. Io con i medici, essendo medico papà, la mamma, lo zio (gemello della mamma), più la zia farmacista, ho sempre vissuto (ci “salviamo” io, prete, mio fratello, laureato in giurisprudenza e la zia, sorella del papà, avvocato). Mamma da due anni è in pensione, ma ricordo bene i suoi sacrifici. Partenza la mattina presto e visite domiciliari fino a mezzogiorno e oltre, dopo pranzo partenza per diverse ore di ambulatorio. Terminato il lavoro, passava a prendere me e mio fratello dai nonni, tutti a casa, cena da preparare. Dopo cena, quando il sottoscritto era al liceo, la mamma mi ascoltava ripetere le declinazioni di latino o l’esposizione di storia. E come scordare, in quarta superiore, le domeniche pomeriggio in cui appendeva l’immagine a misura reale dello scheletro e dell’apparato muscolare alla porta della cucina, mi faceva posizionare dall’altro lato della stanza e con la penna mi indicava ossa e muscoli, per farmeli ripetere prima dell’interrogazione di biologia.

L’ho tormentata abbastanza in quegli anni, ma non si è mai sottratta, nonostante la fatica e gli impegni che caratterizzavano la sua professione, all’aiuto mio e di chiunque in famiglia avesse bisogno. Tutto questo dentro un lavoro, per lei e per papà, decisamente duro. Visitare decine di malati al giorno, ascoltarli tutti, soprattutto ascoltando le storie personali (spesso delicate e pesanti) che quasi sempre accompagnavano il caso clinico, non è né leggero né facile.

Soddisfazioni e amarezze del “mestiere”

Non mancano le soddisfazioni a questa vera e propria missione ma, soprattutto in questi ultimi anni, nemmeno le amarezze e le fatiche. Una burocrazia sempre più pesante mette in difficoltà, la mancanza di fiducia, con la crescente minaccia di querele, accresce la tensione, soprattutto tra gli specialisti. E la gratitudine è sempre più rara. Ricordo il racconto dei miei: quelli per i quali corri di più, spendi più tempo e più energie, sono quelli che a Natale e Pasqua  sono i primi a sparire, per paura di dirti “auguri”. Basterebbe quello, nessuno chiede di più: solo una parola di riconoscenza.

Ma fare il medico è una missione. Mamma ripeteva sempre che “se su cento uno ringrazia, è valsa la pensa di alzarsi dal letto e andare a lavorare quella mattina”.

Fare il medico in tempi di epidemia

In questi giorni, il lavoro di medici, infermieri, operatori vari del settore sanitario, è sotto gli occhi di tutti. Un lavoro massacrante, orari impressionanti; non ci sono più domeniche, festività. Non ci sono più nemmeno le famiglie, il risveglio del bambino la mattina, le chiacchierate serali con gli amici dopo una giornata di visite. C’è la dedizione, l’esserci per la gente, il combattere ciò che danneggia la salute perché tutti e ciascuno vivano meglio possibile.

Ecco, ricordiamoci tutti di questo, quando l’emergenza sarà finita. Ricordiamoci di questi uomini e donne con camice bianco, medici o infermieri, biologi sanitari, volontari ecc.: sono persone che danno tutto, spesso sacrificando anche il poco tempo che hanno per la loro famiglia, per il bene di tutti.

Alla fine della prima Messa che celebrerò con i bambini delle mie comunità, appena sarà possibile, farò pregare per loro. Intanto noi, quando li incrociamo, non abbiamo paura di dir loro: “Grazie, dottore!”. Conoscendoli, risponderanno: “Di cosa?”. Guardiamoli negli occhi, e diciamo loro: “Di tutto!”.