Oggi, 7 aprile, compio 27 anni e mai, nella vita, avrei immaginato che mi sarebbe capitato di invecchiare di un anno nel bel mezzo di un’epidemia, o per lo meno non che questo potesse accadermi a Bergamo. Mi è già successo, infatti, di festeggiare altri compleanni in modo insolito: il mio venticinquesimo, ad esempio, trascorso a giocare a beach-volley a Lumley Beach, a mangiare lasagne e spegnere le candeline della torta di una festa a sorpresa preparatami dalla piccola comunità di cooperanti italiani che vivono a Freetown, capitale di un Paese tristemente noto per l’epidemia di Ebola. Insolito, senza dubbio, ma forse nemmeno così tanto per chi, come me, ha scelto di intraprendere la strada della cooperazione allo sviluppo: una strada che mi ha portata (e spero continuerà) lontano da casa, in posti in cui il mancato accesso a diritti umani presuppone un lavoro di squadra tra governi locali ed organizzazioni internazionali governative e non per la promozione di questi, soprattutto a beneficio delle persone più fragili.
In questo momento, se non fosse stato per lo stravolgimento che quest’epidemia ha portato con sé, avrei dovuto essere da poco arrivata a Nairobi, per trascorrere un anno di Servizio Civile in alcune delle baraccopoli che circondano la città. Ero entusiasta di partire, di intraprendere una nuova esperienza sul campo, di conoscere un Paese per me sconosciuto e con lui la sua gente, di avvicinarmi ad una nuova lingua e a nuove culture e modi di vivere. Insolito, invece, che mi ritrovi a Bergamo a fare qualcosa che mai avrei pensato di fare. Quando ormai otto anni fa mi sono ritrovata di fronte alla scelta del percorso universitario da intraprendere, in maniera molto pragmatica, ma altrettanto idealista, ho optato per una professione che mi avrebbe permesso di imboccare la strada della cooperazione, ma che, qualora fosse stato necessario, a causa di una qualche catastrofe mondiale, mi avrebbe permesso di non rimanere con le mani in mano, ma, anzi, di poter in qualche modo mettere a disposizione le mie mani. Dopo essermi laureata e aver continuato gli studi in maniera concomitante ad alcune esperienze sul campo, dal Mozambico al Perù, passando per la Sierra Leone, ho avuto la fortuna di esercitare quella parte della mia professione spesso sottovalutata in Italia, ma che, invece, in alcuni Paesi a risorse limitate, può davvero fare la differenza.
Ero pronta a partire per continuare ad essere infermiera, dedicandomi ad attività di promozione della salute per popolazioni vulnerabili in un Paese africano, ma quest’epidemia non solo mi ha costretta a rimanere a casa, ma anche e soprattutto mi ha fatto ripensare alla scelta alla base dei miei studi e, per questo, a tornare a dare una mano, anzi due, letteralmente, in ospedale.
Sono a malapena un paio di settimane che lavoro in un reparto di degenza del Papa Giovanni XXIII, di quello che noi identifichiamo come Torre 4, Piano 1, perché è così che ci sta trasformando quest’epidemia, in esseri umani anonimi costretti a vivere relazioni anonime e virtuali in spazi senza nome. Essere infermiera, per me, vuol dire soprattutto sviluppare una relazione con le persone di cui mi prendo cura, ancora di più nell’ambito della promozione alla salute, in cui un problema reale ancora c’è, ma che, proprio per la sua natura potenziale, richiede che si costruisca un rapporto basato su conoscenza e fiducia reciproche al fine di evitarne l’insorgenza. Quando ho inviato la mia candidatura per tornare a dare due mani all’ospedale, la mia paura più grande non è stata quella di avere tutti i giorni a che fare con una malattia reale, ma di rischiare di non avere a che fare con persone, che non avrei fatto nemmeno in tempo a conoscere, vista l’imprevedibile evoluzione della malattia; avevo paura di non poter conoscere nemmeno le persone con cui avrei lavorato, irriconoscibili come siamo dietro camici e mascherine; avevo paura di non essere in grado di essere efficiente come la situazione richiede, troppo concentrata sulla parola da dire o il sorriso da far trasparire attraverso la mascherina quando sarebbe stato necessario, per cercare di restare vicina, ma soprattutto umana, in questo momento di solitudine a chi soffre nella solitudine ospedaliera.
A distanza di un paio di settimane da quando ho varcato la soglia dell’ospedale, dopo la fatica di muovermi sotto al camice, di toccare le persone attraverso due paia di guanti, di parlarci attraverso la mascherina e la visiera facciale, la paura dell’anonimato si è dissolta: con le colleghe e i colleghi, come con le pazienti e i pazienti, abbiamo imparato a conoscerci attraverso gli occhi e la voce, lavoriamo in gruppo, senza competizione, ma con cooperazione, contribuendo ognuno al meglio che può. Ogni volta che entro in ospedale e mi metto in fila al distributore delle divise e percorro il corridoio che mi porta allo spogliatoio, prima di entrare in reparto, penso a tutti noi che, con i più svariati profili, lavoriamo in ospedale come minuscole formiche industriose, che non posso fermarsi fino a che la loro casa non sarà terminata. Noi, che, parafrasando il noto hashtag del momento, non possiamo restare a casa, lavoriamo incessantemente dentro il grande formicaio che è l’ospedale perché l’epidemia finisca in fretta, o meglio perché il suo impatto sulla salute di coloro di cui ci prendiamo cura sia minimo. È inutile negare che le nostre giornate, e nottate, sono fatte di momenti difficili, di stanchezza per il ritmo incessante, della sofferenza nella solitudine, di preoccupazione per quello che da un momento all’altro potrebbe capitare in ospedale, di incertezza per tutto quello che accade fuori. È altrettanto vero, però, che spesso penso che tutto andrà bene, soprattutto quando, per pochi istanti, al lavoro, posso posare lo sguardo su Città alta, su quel suo profilo unico e meraviglioso da togliere il fiato (sono fortunata, credo di lavorare in uno dei pochi reparti con la vista migliore sulla città), cercando di carpirne ogni suo dettaglio in base alla luce che la colpisce così come, nel silenzio del parcheggio, prima di salire in macchina per tornare a casa, ascoltare con emozione i cento rintocchi che, ogni volta, spero annuncino un giorno migliore.