Per padre Paolo Dall’Oglio, ad otto anni dalla sua scomparsa

Padre Paolo Dall'Oglio

La prima volta che ci siamo incontrati era in pieno deserto, nel Nebek, ad un’ottantina di chilometri a nord di Damasco. Lasciata la macchina, presi un sentiero che saliva verso la montagna, a milletrecento metri di altezza.

Dopo quasi quattrocento gradini giunsi ad un particolarissimo monastero che padre Paolo Dall’Oglio aveva restaurato con cura.

Un antico luogo di sosta e di preghiera cristiana e una chiesa interamente ricoperta di affreschi dell’undicesimo e dodicesimo secolo. Paolo vi era stato, per caso, molti anni prima e ne era rimasto incantato.  

Quasi subito aveva voluto far rinascere il monastero dando vita ad una comunità di spirito ecumenico raccolta attorno ai tre pilastri della vita monastica: preghiera, lavoro manuale e ospitalità, che nel mondo semita, arabo e d’origine nomade, è la virtù più alta. Niente di originale: Ora et labora. Se non fosse che era nel cuore dell’islam. Aperta a tutti, anche per quanti pregavano Allah cinque volte al giorno. 

Paolo Dall’Oglio: “Aiutiamo ognuno a essere un pellegrino di verità”

Quando ritornai a trovarlo, sotto la tende dell’accoglienza, di fronte alla tavola imbandita, gli chiesi se la sua visione non fosse troppo ingenua e rischiasse di annacquare la differenza cristiana.

Mi rispose con forza: “No! Io so che annuncerò fino alla fine l’Evangelo di Gesù. Ma so anche che, di fronte a me, un musulmano non si stancherà di annunciare, con la stessa intensità, la profezia del Corano.

Qui, in mezzo ai credenti musulmani, ho imparato che l’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno a essere un pellegrino di verità, non limitarlo all’interno del suo contesto, valorizzare la sua esperienza di Dio”. 

Otto anni dalla scomparsa di padre Paolo

Nei prossimi giorni saranno otto anni dalla scomparsa di padre Paolo. Sono passati quasi tremila giorni. Non si hanno più notizie dal 29 luglio del 2013 dopo che a Raqqa, città dell’est della Siria, era entrato nel casermone del palazzo del Governatorato, in quei giorni sede centrale dell’ISIS.

Un silenzio assordante, all’interno del caos dell’infinita guerra in Siria, in mezzo alle ipotesi più disparate sulla sorta del gesuita romano. La sua parabola pare essere sotto il segno della sconfitta. Eppure il seme gettato per una visione che metta al centro non le religioni ma Dio stesso non muore.  È il vento dello Spirito, che non sempre ha i tempi della storia e degli uomini, che lo fa crescere. Nonostante tutto.