Percorsi di allenamento per parrocchiani: collaborazione, stima, rispetto

Per diversi mesi abbiamo trascorso un tempo particolare, legato alla diffusione del Covid-19 e al pericolo del contagio. In questo periodo abbiamo vissuto il lockdown, quindi anche la vita parrocchiale è stata messa a dura prova, con la sospensione dei gruppi (catechismo, Azione Cattolica ragazzi, scout, gruppi giovani…) e delle celebrazioni delle messe aperte ai fedeli. L’estate scorsa sono stati sospesi diversi campeggi e gruppi estivi. Al momento attuale non siamo ancora del tutto tornati alla normalità, e viviamo ancora delle limitazioni. 

Questi mesi hanno portato a galla alcune debolezze e fragilità nel nostro modo di vivere la fede, che richiedono un grande lavoro per “irrobustire i muscoli delle comunità” (per usare una metafora sportiva) e ripartire con forza per il nuovo anno pastorale. Offre molti spunti di approfondimento in questa chiave il volume “Sei nella formazione?” (Gruppo Editoriale San Paolo 2021, pp. 192, 16,00 euro), in cui Mirko Pozzobon stila una serie di “Percorsi di allenamento per parrocchiani” come recita il sottotitolo del testo. 

Giocare insieme una buona partita: collaborazione, stima, rispetto

A partire dalla sua esperienza in parrocchia, don Mirko indica alcuni atteggiamenti fondamentali per giocare insieme una buona partita: lo spirito di collaborazione, la stima e il rispetto reciproco, la capacità di fare spazio agli altri. 

Non si nasce già formati, è necessaria una formazione a tutto tondo e permanente anche alla vita cristiana, nella sua dimensione umana, intellettuale, spirituale, pastorale. Sarà così possibile mettere solide radici, ancorarsi al Vangelo e testimoniarlo nella propria esistenza. 

Abbiamo intervistato don Mirko Pozzobon, sacerdote della diocesi di Belluno-Feltre, ordinato nel 2007, ha conseguito il dottorato in Sacra Scrittura presso l’Istituto Biblico di Roma, che affianca l’insegnamento presso l’ISSR del Veneto Orientale all’attività pastorale in parrocchia. Attualmente è parroco in solido nelle tre parrocchie di Bribano, Roe e Sedico, dove tra giugno e luglio sono stati celebrati sei matrimoni, “ottimo segnale che la ripartenza è in atto”, dichiara don Mirko.

  • Don Mirko, l’Italia prova a ripartire, liberi ma con regole. Per quanto riguarda  l’attuale situazione della Chiesa italiana, ritiene che sia necessaria una riflessione e un’adeguata formazione? 

«Negli ultimi mesi più volte dal mio punto di osservazione delle parrocchie ho sentito questa frase: “Appena finisce la pandemia, bisognerà riprendere da dove eravamo arrivati”. Ho sempre fatto notare che non è scontato il fatto di riprendere da dove eravamo arrivati prima dell’incursione nelle nostre vite del Covid-19. L’esperienza di questo lungo periodo, di cui di fatto ancora non vediamo la fine, richiede di riflettere a fondo, più che di ripartire. Ora è necessaria una riflessione di tutti e una formazione che coinvolga più persone possibili». 

  • Come essere nelle nostre comunità cristiani formati e come fare tesoro della lezione che ci sta lasciando il passaggio del Covid-19?

«Ci sono delle parole chiave che possono aiutare la nostra riflessione, nel mio libro “Ricalcolo il percorso. Esercizi per una pastorale rinnovata”, avevo parlato della necessità di essere persone creative e della necessità di essere persone elastiche. Ne avevo parlato in tempi non sospetti, prima della pandemia. Avevo puntato l’attenzione su alcune caratteristiche, che a mio parere non sono radicate nelle nostre comunità.

Le nostre comunità sono bene educate al senso del dovere, al senso del sacrificio e tutti noi conosciamo parrocchiani, che hanno più di un incarico, una gran parte della loro vita è spesa nel volontariato e nella vita delle nostre parrocchie. Non vedo altrettanta preparazione per quanto riguarda la creatività e l’elasticità. La creatività di fronte alle situazioni nuove e una certa elasticità, che serve per vivere il cambiamento senza paura e con coraggio.

Rispetto a questa situazione penso che il Covid-19 abbia messo in luce una ulteriore difficoltà, cioè una mancanza di radici, di un vero e forte spirito di comunità a livello del cammino di fede. C’erano dentro di noi alcune certezze e dei punti non negoziabili, che abbiamo scoperto non essere forse gli aspetti più importanti. Sull’esperienza del Covid-19 è importante capire quali siano le radici della nostra appartenenza ecclesiale e quelli che invece sono degli aspetti in più ma che non sono fondamentali». 

  • Qual è la ricchezza e allo stesso tempo la debolezza e la fatica della parrocchia? 

«Vivo in una parrocchia quindi in mezzo alle persone e di questo sono orgoglioso, perché la parrocchia ci sarà sempre per tutti, anche per le persone appartenenti alle altre religioni. Grande e capillare è la presenza delle parrocchie nel nostro territorio nazionale e ciò mi rende felice.

Proprio perché la parrocchia di fatto c’è, ciò non vuole dire che deve essere presa come un dato di fatto, e questo è una debolezza, una fatica e un rischio, perché fa vivere in modo meno consapevole la propria appartenenza cristiana. Mai dare tutto per scontato. Tutto ciò insieme a un certo clima di anonimato, se la parrocchia è per tutti c’è il rischio che nessuno si senta lì di casa.

Ed è per questo che il mio vescovo della diocesi di Belluno-Feltre, Mons. Renato Marangoni, ci dice di puntare molto sulle relazioni, perché ci sia a livello di vita parrocchiale, quel “sentirsi a casa”, che nasce solo dalle frequentazioni, dal mantenere i rapporti, dal visitare e dall’essere visitati. Tutti aspetti che negli ultimi tempi non si sono potuti fare, io e don Sandro, il mio collega parroco, abbiamo cercato di mantenere i rapporti on line, ma non è la stessa cosa, anche se questa è una strada da percorrere per combattere questa fatica dell’anonimato nelle nostre parrocchie».

  • È vero che la prima forma di catechesi è quella degli adulti? 

«Si, credo che sia questa la prima forma di catechesi, quello che noi dovremmo fare è quello di sentirci sempre in formazione, il discorso vale per tutti i sacerdoti e per tutti i parrocchiani. Quando tutti si sentono in formazione il discorso di catechesi non può che riguardare gli adulti delle parrocchie cioè quella fascia di età che va dai venticinque anni agli ottant’anni e passa. È una grande maggioranza di persone alla quale occorre dire che è importante che anche loro si sentano in cammino, in formazione». 

  • Come riformulare il catechismo dei bambini? 

«Nella maggior parte delle parrocchie italiane la Comunione si fa in quarta elementare la quarta domenica dopo Pasqua. Un percorso un po’ scontato, già programmato, deciso a tavolino, che non lascia nessuno spazio ai singoli percorsi. Un modo di fare catechesi con scadenze fisse e che richiama i bambini per classe. La catechesi invece ha bisogno di famiglie che chiedono di vivere insieme il momento di preparazione e di crescita spirituale verso questo sacramento. Un altro aspetto fondamentale è quello di slegare la preparazione dalla celebrazione del sacramento della Comunione, perché dopo anni di esperienza abbiamo notato che si rischia di concentrarsi sulla celebrazione e meno sulla preparazione. Una preparazione che i bambini possono iniziare a sette anni di età, insieme semmai a bambini di otto o nove anni. Stesso discorso vale per la Cresima che si può iniziare a quattordici anni di età. Meno fuochi d’artificio, pensiamo alle ristrettezze causate dalla pandemia, ma celebrazioni più sentite e legate alla normale vita della comunità. Alcune cose del catechismo, se andavano bene trent’anni fa, adesso non vanno più bene, non servono più e anzi rischiano di trasmettere un’idea sbagliata della appartenenza ecclesiale».

  • Partendo dal principio che ci si forma mentre si opera, quanto è importante  il compito di educare alla fede, che i genitori possono intraprendere in famiglia con i loro figli?

«Proprio all’interno di questa riformulazione del catechismo, fondamentale è l’apporto dei genitori. Nel nostro percorso, che si articola in sei tappe, ai genitori chiediamo di puntare nell’impegno a casa, cercando di mettere nelle loro mani degli strumenti per vivere insieme ai figli un momento di formazione. Dobbiamo aiutare quei genitori che non si ricordano le parabole di Gesù, per esempio, e non possono in tal modo raccontarle ai figli, per risvegliare in loro questi fondamentali della fede, come la parabola della pecorella smarrita o la parabola del figliol prodigo. E’ importante questo compito di “primo annuncio” da parte dei genitori che devono risvegliarsi alla fede per essere formatori nelle loro famiglie e con i loro bambini».