Padre Vincenzo Percassi: “Nonostante le difficoltà l’Africa mostra al mondo gioia e coraggio”

Padre Vincenzo Percassi ha la voce pacata e quieta, una serenità nel tono che si trasmette anche attraverso il microfono del telefono, in un’intervista sulla sua attività missionaria che diventa subito una piacevole chiacchierata sul senso della fede, sull’incontro tra modi di credere diversi e sulla formazione ecclesiale in un continente tanto vasto e tanto diverso come quello africano. Originario di Clusone, il comboniano padre Vincenzo ha operato infatti per svariati anni in Africa, dapprima in Malawi e in Zambia, poi in Ghana e infine in Benin, e a luglio 2021 è rientrato in Italia: starà qualche tempo a Limone sul Garda, paese natale del fondatore del suo ordine, padre Daniele Comboni. «Se poi mi verrà chiesto di andare altrove a proseguire con l’impegno missionario, sarò felice di andare», commenta il sacerdote. 

L’esperienza in parrocchia e la formazione spirituale 

L’esperienza missionaria africana di padre Vincenzo è stata, come lui stesso ammette, una sfida. L’Africa è un coacervo di paesi, di caratteri, di lingue, e le varie zone sono diversissime tra loro per approccio alla fede, cultura, storia, rapporto con il mondo occidentale.

Ma è anche, spiega padre Vincenzo, «forse la terra che più di tutto è capace di reagire alla tristezza e alle difficoltà. Mi sembra che il dono più grande del continente africano al mondo è l’insegnamento della gioia, la caratteristica per cui in tutte le situazioni della vita, anche le più drammatiche, si riesce sempre a vedere oltre, a non restare abbarbicati alla propria tristezza e a tornare a una dimensione di canto, di celebrazione, di gioia dello stare insieme.

Questo per me è stato un grande insegnamento: io di carattere tendo alla riservatezza, alla pacatezza nelle manifestazioni emotive, e operare nel continente africano mi ha portato a uscire da me stesso, a vivere le situazioni con più serenità». 

Dal Malawi al Ghana: in primo piano la formazione

In Africa, padre Vincenzo ha seguito sia le attività parrocchiali e pastorali sia quelle formative. In Malawi, dove è stato inviato poco dopo l’ordinazione a sacerdote, si è occupato soprattutto della pastorale giovanile nella diocesi, mentre in Zambia ha curato l’attività parrocchiale: un contatto diretto e quotidiano con le comunità che, racconta, l’ha portato a imparare anche le lingue locali, appartenenti al ceppo di lingue bantu e molto simili tra di loro.

Diversa invece l’attività in Ghana, dove è arrivato nel 2007 e dove è rimasto per dieci anni: qui era sia viceparroco, sia formatore nel seminario locale e insegnante nel seminario diocesano. «In Ghana ho vissuto quindi un’esperienza mista: da un lato seguivo la parrocchia, con le attività di catechesi, visita ammalati e messe; dall’altro portavo avanti la formazione e l’accompagnamento con gli 11 studenti di teologia nel piccolo seminario».

Anche in Benin si è occupato quasi esclusivamente di formazione, in questo caso seguendo in particolare i seminaristi in noviziato nel loro percorso interiore e spirituale. 

La fede “matura” è fatta anche di silenzio e riflessione

«Un percorso non sempre facile, quello formativo», ammette il sacerdote. «Spesso in Ghana ho riscontrato una certa tendenza a vivere la preghiera e la fede sotto una prospettiva un po’ “magica”, a rivolgersi a Dio per questioni connesse soprattutto alla guarigione, alla liberazione dal demonio, alla ricerca di sicurezze materiali per la vita.

In Benin questo è meno marcato, ma non assente. Non è sbagliato di per sé, ma ho riscontrato quasi una superficialità, una certa durezza nell’accogliere un’idea di fede che sia anche formativa, capace di agire sulla propria interiorità. In questa prospettiva, Dio diventa una sorta di rifugio per ottenere prosperità terrena, mentre manca una concezione di fede che sia anche silenzio, riflessione e ritorno su se stessi. Questa, forse, è stata una delle difficoltà maggiori che ho riscontrato durante gli anni trascorsi lì». 

Quando l’Africa insegna l’umiltà

Per padre Vincenzo, l’Africa a dire il vero è arrivata un po’ per caso. Al momento di essere mandato in missione, aveva infatti espresso l’interesse per il mondo asiatico, di cui lo affascinavano le radici millenarie e la spiritualità pacata, molto interiore.

Invece, la scelta dei superiori per questo sacerdote tranquillo e discreto è stata per il continente africano, con tutte le sue contraddizioni e il suo strascico di storia ingombrante, soprattutto se sei occidentale e bianco.

«I paesi della costa occidentale come Ghana e Benin hanno vissuto il dramma dello schiavismo: da qui partivano le navi negriere verso l’America, questi porti sono carichi di sofferenza non poi così antica», spiega padre Vincenzo.

«Questo spiega un po’ la distanza rispetto ai bianchi in generale e un certo orgoglio rivendicativo che è comprensibile, visto tutto quello che hanno subito. Per me è stata una sfida anche accettare che abbiamo sulle spalle un’eredità storica di cui forse non sono diretto responsabile, ma da cui non posso tirarmi fuori. Visitare luoghi della memoria africana come Cape Coast, da cui partivano le navi cariche di schiavi, rende evidente non solo l’ingiustizia subita ma anche quella perpetrata, e racconta un trattamento inumano che inevitabilmente fa arrossire di vergogna, come europei e come cristiani. La sfida per me è stata forse accettare questo ridimensionamento: che non siamo cioè i buoni della storia, e questo implica una necessaria umiltà, oggi, nella relazione con i popoli africani». 

Il dramma della schiavitù e la presenza europea di oggi

Secondo padre Vincenzo, questo è un aspetto molto importante da considerare: «Noi europei, spesso, andiamo lì con molta buona volontà, ma ho compreso che questo non basta: c’è tutta una storia che non si può mettere tra parentesi, ignorare o dimenticare. Per questo non si può parlare di rapporto paritario spontaneo: bisogna accettare di essere guardati con sospetto, con sofferenza, con giudizio anche. Mi sembra una cosa legittima. Mi sembra di poterli capire, mettendomi nei loro panni. E non riesco a prendermela, come invece capita a molti europei quando si scontrano con questa realtà. Bisogna, credo, “camminare bassi bassi”, come diceva papa Giovanni Paolo I: per creare relazione, serve una grande umiltà». Ecco perché, spiega ancora, i rapporti profondi di amicizia e affetto creatisi nel tempo, perseverando nel desiderio di amicizia e di contatto, risultano così preziosi: a distanza di tre o quattro anni dalla sua partenza, ci sono giovani della parrocchia ghanese che ancora lo chiamano, anche solo per un saluto in videochiamata. 

Un libro per raccontare “l’esercizio della libertà”

Recentemente, padre Vincenzo Percassi ha raccolto in un libro la sua esperienza come formatore: titolo del testo è “L’esercizio della libertà” (ed. Dehoniane, 2021), e nelle sue pagine il sacerdote ha riassunto il percorso ventennale di accompagnamento e formazione.

«Ho sentito il desiderio di mettere per iscritto un’esperienza che mi ha caratterizzato per oltre due decenni», spiega.

«Per me educare è uno sforzo di libertà: come si trasmette un valore senza imporlo, come lasciare che esso trovi spazio nell’animo della persona e solleciti un’adesione libera, non forzata? Ecco, credo in una pedagogia che sia rispettosa della libertà individuale. Di questo ho voluto parlare in queste pagine, che pur non trattando direttamente dell’esperienza africana, di certo ne sono state largamente influenzate».