La storia di Anna e Alice, che aiutarono i bambini sopravvissuti alla Shoah

Nella Giornata della Memoria si commemorano le vittime dell’Olocausto. Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa arrivate nei pressi della città polacca di Auschwitz scoprirono l’enorme campo di concentramento e di sterminio utilizzato nel corso del genocidio nazista. Quando le prime truppe del generale Viktor Kurockin entrarono nel campo, trovarono circa 7.000 prigionieri che erano stati lasciati lì, molti erano bambini e una cinquantina aveva meno di otto anni, sopravvissuti perché erano stati usati come cavie per la ricerca medica. Alla fine della guerra gli ebrei uccisi nei campi di concentramento furono tra i cinque e i sei milioni, ma c’era anche da ricostruire la vita di uomini, donne e bambini sopravvissuti a quell’immane orrore.

Nel romanzo “Se solo il mio cuore fosse pietra” (Feltrinelli 2022, Collana “Narratori”, pp. 224, 17,50 euro), la giornalista e scrittrice Titti Marrone, dà luce a una vicenda finora poco conosciuta, raccontando la forza e la tenacia di due donne, Anna Freud, figlia di Sigmund Freud e Alice Goldberger, le quali, nel 1945 nel cottage di Lingfield, nel Surrey, a conflitto terminato si occuparono del benessere di venticinque bambini ebrei sopravvissuti ai lager, agli orfanotrofi e ai nascondigli.

“Venticinque storie vere in forma di romanzo concedendomi solo qualche libertà suggerita dalla forma letteraria, ma restando nella sostanza fedele al corso degli avvenimenti”, chiarisce nelle pagine finali Titti Marrone, che ci spiega in che modo Anna e Alice ricucirono le ferite di una piccola rappresentanza di una generazione straziata dal nazismo, alla quale Hitler aveva sottratto l’infanzia.

  • Alla fine della II Guerra Mondiale, in Inghilterra, nel Surrey, Sir Benjamin Drage mise a disposizione la sua proprietà in campagna per farla diventare una residenza per i piccoli reduci dai campi di sterminio, quali Terezin e Auschwitz. A occuparsi del recupero di questi bambini traumatizzati fu Anna Freud insieme ad Alice Goldberger. Ce ne vuole parlare?

«Attorno ad Anna Freud e Alice Goldberger c’era uno staff quasi tutto al femminile che si trovò ad affrontare dei traumi mai visti prima, causati da una devastante e orribile vicenda senza precedenti, ecco perché il metodo di Anna e Alice era nuovo e inedito. I venticinque bambini provenivano da lager, da orfanotrofi, conventi o addirittura erano stati nascosti in sottotetti, cantine o soffitte. Ciascuno di questi bambini aveva vissuto una personale odissea, quindi l’accoglienza a Lingfield venne sperimentata sul campo e anche modificata in continuazione con il passare delle settimane e dei mesi. La vita quotidiana di questi bambini consisteva nel tornare all’infanzia, un’infanzia che era stata loro negata. Il fatto che li accomunava tutti, anche se i loro traumi e le loro esperienze erano diverse, era la diffidenza e la paura nei confronti degli adulti. Erano bambini che finora avevano avuto più dimestichezza con i morti, con i cadaveri, che con i vivi. Erano abituati a considerare gli adulti infidi, capaci di mentire, di ordire tranelli. Infatti, la difficoltà maggiore che si era manifestata subito per Anna Freud e Alice Goldberger era stata quella di conquistare la fiducia di questi bambini chiusi, ostili, non disponibili a un contatto di affidamento, che è il requisito principale di una terapia analitica. Per cui la rinascita dei bambini si sarebbe manifestata nei piccoli atti della vita quotidiana, per esempio i bambini erano diffidenti nei confronti del cibo, temevano che fosse avvelenato, diffidenti nei confronti dei mezzi di trasporto, perché loro avevano visto solo mezzi di trasporto che conducevano a morire. Alice in seguito avrebbe creato corsi di giardinaggio, di pianoforte (alcuni bambini non conoscevano la musica), di affidamento di piccoli animali domestici, affinché i bambini avessero recuperato la fiducia e anche l’attitudine a vedersi inseriti in un mondo che non era loro ostile ma che poteva essere addirittura amico».

  • La missione delle due donne non si fermò qui. Entrambe tentarono di ritrovare i familiari di questi bambini, sparsi per il mondo. Il loro impegno venne premiato?

«A volte sì e a volte no. Un impegno impervio, perché le famiglie di questi bambini in molti casi non erano rintracciabili, tuttora in alcuni casi non è stato possibile ricostruire i percorsi di alcune persone che sono state deportate dai nazisti. Sono sparite nel nulla. Per quanto riguarda i venticinque bambini di Lingfield, alcuni di loro avevano ricordo, memoria di un nome dei genitori, del proprio cognome, alcuni invece non sapevano neanche dire dove erano nati. Quindi il ricongiungimento appariva difficile. Siamo abituati a considerare il 27 gennaio 1945 come il giorno della liberazione, dell’arrivo dei soldati russi nei lager, come se tutti i deportati fossero potuti tornare a casa in un trionfale “happy end”. Il mio romanzo mette in chiaro che non è così, quel giorno iniziò una nuova odissea, l’odissea della ricerca dei familiari, quando possibile, e quando la cosa non era possibile, i bambini erano avviati in altri centri di accoglienza. Un impegno gravoso per Anna, Alice e il loro staff, per il quale nessuno di loro, ricevette alcun premio, che neanche si aspettavano del resto, perché semplicemente avevano fatto quello che andava fatto. Non c’era l’attesa di un premio, bisogna dire però che c’è un albero dei Giusti piantato per Alice Goldberger nel Giardino dei Giusti, nel comprensorio di Yad Vashem a Gerusalemme, dedicato ai Giusti tra le nazioni ovvero a persone gentili che durante l’Olocausto, rischiando le loro vite, prestarono aiuto e soccorso agli ebrei perseguitati dai nazisti».

  • Ciascuno dei venticinque bambini tra i quattro e i quindici anni aveva una storia diversa, c’era anche chi era stato nascosto in convento o in orfanotrofio. Qual era la storia delle sorelle Tatiana e Andra Bucci?

«Tatiana di sei anni e Andra di quattro vennero deportate da Fiume ad Auschwitz insieme con tutta la famiglia, nove persone, incluso il cuginetto Sergio di otto anni. I bambini che nel campo di concentramento vennero separati dalle madri, non furono subito condannati a morte (nel lager i bambini sotto i sei anni venivano immediatamente mandati a morte), perché furono scambiati per gemelli. Ad Auschwitz furono mandati nella baracca dei bambini, qui le loro madri di sera li visitavano sporadicamente, strappati dalle loro braccia dalle guardie, fino a quando le madri non andarono più a trovarli. Alla liberazione del campo di Auschwitz, Andra e Tatiana furono portate in una struttura della Croce Rossa in Cecoslovacchia, Sergio non era più con loro, e da lì un anno dopo le sorelline, arrivarono a Lingfield. Qui un giorno arrivò una lettera da Napoli, spedita dalla mamma di Sergio, Gisella, che cercava suo figlio e le sue nipotine. Dopo qualche tempo venne spedita una lettera contenente una fotografia dei genitori di Andra e Tatiana le quali, vedendo la foto, riconobbero i loro genitori».

  • Nel libro racconta anche la triste vicenda di chi non si salvò, come Sergio De Simone, che non poté mai arrivare a Lingfield. Non ritiene che la barbarie contro gli esseri umani più indifesi si ripresenti di continuo, anche oggi?

«Questo è proprio il motivo per il quale ho scritto il libro e per il quale ho voluto inserire Sergio, che appare fin dalla prima pagina del romanzo. Sergio, l’unico bimbo italiano sottoposto a sperimentazioni in un lager, il bambino che a Lingfield non arriverà mai, è il simbolo di tutti quei bambini che non riescono a sopravvivere alle vicissitudini contemporanee, alle quali assistiamo con indifferenza o in maniera distratta, senza considerare che la barbarie contro gli esseri umani e più indifesi si ripresenta di continuo. Quindi la vicenda dei venticinque bambini di Lingfield che appare lontana, è purtroppo attuale, vicina a noi».

  • A Lingfield i bambini finalmente riuscirono dopo tanti traumi e perdite, a riappropriarsi della loro infanzia fino ad allora rubata e perduta?

«Sì, non fu facile. Qualcuno non ci riuscì come Julius Hamburger, il bambino proveniente da Auschwitz che nel campo di concentramento si dimostrò intraprendente difendendo le bimbe più piccole. Quando Julius arrivò a Lingfield non era più il bambino carismatico, non si fidava degli adulti. Io lo chiamo “il bambino sull’albero”, perché scappava spesso nascondendosi su di un albero quando qualcosa per lui non andava bene. Julius, che ad Auschwitz rubava il pane per le piccole, una volta in Israele in un kibbutz avrebbe continuato a rubare, andando a finire in carcere. Un altro bambino che non riuscì a riappropriarsi della sua infanzia è Mirjam Stern, rimasta chiusa in una soffitta per due anni, da sola, al buio, senza parlare con nessuno. Da adulta avrebbe fatto uso di sostanze stupefacenti, perché per lei il peso di vivere era diventato troppo gravoso».

  • È vero che Anna Freud gettò le basi della psicoanalisi infantile?

«Sì, è proprio così. Anna aveva alle spalle anni di esperienze lavorative con bambini svantaggiati, con orfani. Già negli anni Venti aveva lavorato come insegnante sviluppando una grande esperienza di osservazione di casi estremi di disagio nei bambini. L’esperienza a Lingfield era stata decisiva per lei, è lì che sperimentò direttamente il trauma nell’infanzia. Infatti nelle opere di Anna Freud, che ho consultato per la stesura del volume, ho fatto ricorso a molto materiale documentario, c’è un diario dove vengono raccontate le reazioni dei bambini provenienti dal campo di concentramento di Terezin, “i bambini del cucchiaio”, il loro modo di muoversi tutti insieme, tentando così di superare la diffidenza nei confronti degli adulti. Ed è proprio lì che si sviluppano gli elementi fondamentali di osservazione che consentono alla figlia di Sigmund Freud di mettere a punto le sue teorie sulla psicanalisi in età evolutiva».