La storia dei “moschettieri del mare” che attraversarono l’Atlantico sulle scialuppe per far conoscere la tragedia delle foibe

Ci sono vicende così eccezionali che, spesso, paiono leggenda. Ci sono storie così grandiose che, a volte, non possono che essere taciute. Capita, però, che la volontà, ad un certo punto, le sottragga all’oblio del tempo, riportandole alla luce. Questa è una di quelle.

È la storia del comandante Rodolfo De Gasperi, che, nel 1948, a 34 anni, con alcuni compagni e due piccole barche (l’«Italia» e la «Trieste»), partì dal Molo Audace di Trieste alla volta del Sud America, per portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la tragedia delle foibe e il dramma che stavano vivendo gli italiani della Venezia Giulia.

Una spedizione che, allora, fu pressoché ignorata dalla stampa nazionale, anche dopo la pubblicazione, ad opera della giornalista Rina Cioni, del libro «Italiani sul mare» (Edizioni Abete, 1951), e che, oggi, Alberto Cammarota, discendente bergamasco di Rodolfo De Gasperi, vorrebbero far conoscere e diffondere.

In viaggio per far conoscere la tragedia delle foibe

«L’idea della spedizione venne a Glauco Gaber – racconta Alberto Cammarota, appartenente, per linea materna, alla nobile famiglia Divo –. Triestino e irredentista, aveva preso parte ai primi ritrovamenti delle salme degli “infoibati”: un’esperienza che l’aveva segnato nel profondo, generando in lui la volontà di svelare, al mondo, l’eccidio titino. Era necessario, però, scovare un marinaio esperto, che venne individuato nella figura di mio zio».

Rodolfo De Gasperi era nato a Gradisca d’Isonzo e aveva servito, durante la Seconda guerra mondiale, la marina mercantile. «Lo zio, durante la guerra, subì diversi naufragi, come quello drammatico del “Perla” e della “Neptunia” – spiega Cammarota –. Proprio in occasione di quest’ultimo, si distinse per coraggio e valore, mettendo in mare le scialuppe e disponendo, con ordine e sangue freddo, l’imbarco dei soldati nelle stesse».

Nel 1943, dichiarato inabile alla navigazione causa ferite di guerra, De Gasperi, perito navale, lascia la Marina e ottiene la Cattedra di Astronomia, Navigazione, Meteorologia ed Oceanografia all’Istituto nautico di Trieste.

Due scialuppe e una radio per attraversare l’Atlantico

Alberto Cammarota

Fino alla chiamata di Gaber. «Gaber fece leva sullo spirito patriottico di mio zio – afferma Cammarota –. Una volta che accettò, lo nominò comandante della missione. Si provvide, poi, al completamento dell’equipaggio (nove persone in totale) e al reperimento delle imbarcazioni: due scialuppe del tipo lancia di salvataggio, di 7 metri di lunghezza per 2 di larghezza, con una profondità di scafo di appena 90 centimetri (da imbastire per una traversata atlantica!) e una radio come unico contatto con la terraferma: tutto quel che si potevano permettere e per il quale contrassero anche dei debiti. Partirono la notte del 16 dicembre, tra il disinteresse delle autorità anglo-americane e il sarcasmo della radio jugoslava».

Prima il litorale adriatico, i porti della Puglia e della Sicilia (dove raccolgono provviste e aiuti da molti simpatizzanti), poi le coste del Nordafrica (dove incontrano Orson Welles) e di San Vincenzo di Capo Verde, infine l’oceano.

Un viaggio che, già dall’inizio, si rivela essere complicato da affrontare. «A Gibilterra, per problemi tecnici, l’equipaggio della “Trieste” decise di tornare in Italia – dice Cammarota –. Rimasero in quattro (De Gasperi, Gaber, Giovanni Valcich e Giuseppe Reggio) con una barca sola, rinominata “Italia-Trieste”».

La traversata sembra non finire mai, i morsi della fame e della stanchezza si fanno sempre più forti e, passata la linea dell’Equatore, incominciano pure i primi guasti alla batteria di bordo, mentre le comunicazioni si rivelano essere sempre più difficili.

Ma, il 9 settembre 1949, dopo esser scampati a cicloni, fortunali e a scomodità di ogni genere, i marinai avvistano il porto di Fortaleza, in Brasile.

Passano quindi per Recife (dove incontrano il Console d’Italia Giorgio Braccialarghe che, invano, chiederà al ministero degli Esteri italiano un finanziamento per De Gasperi e per i suoi compagni), Rio de Janeiro, San Paolo e Porto Alegre, fino a raggiungere, infine, Montevideo, in Uruguay.

L’arrivo a Buenos Aires e l’incontro con Perón

Qui, l’entusiasmo da parte dei giornalisti, dei radioamatori (che avevano seguito con ansia e trepidazione l’impresa dell’equipaggio italiano fin dall’inizio), delle autorità e delle comunità italiane sudamericane è grande.

Il 24 maggio 1950, giungono a Buenos Aires. Saranno ospiti dello Yacht Club argentino e del River Plate, fino a essere accolti dal presidente Juan Domingo Perón, che elogerà la loro temerarietà, ordinando di mettere a loro disposizione i mezzi di locomozione necessari per visitare il Paese, e che, personalmente, firmerà il diario di bordo dei quattro italiani.

Ritorneranno in patria con un volo Alitalia. Nessuno, però, sarà presente ad attenderli all’aeroporto. «In realtà, alla base dell’impresa di De Gasperi e dei suoi compagni, veri e propri “moschettieri del mare”, non c’era solo l’idea di far conoscere a più persone possibili la tragedia delle foibe – spiega lo storico e giornalista Valentino Quintana, conferenziere per l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, nonché autore del pluripremiato libro «Fratelli contro» (Leone Editore, 2017) –, bensì cercare di operare una sorta di pressione sulla comunità internazionale, affinché i confini, stipulati dai trattati di Parigi del ‘47, potessero essere revisionati e riformulati in maniera più equa. Non a caso, infatti, l’ultima tappa del viaggio avrebbe dovuto toccare gli Stati Uniti d’America. Ma la speranza di incontrare il presidente Truman, grazie a un volo aereo Buenos Aires-New York, messo a disposizione da Perón, non si concretizzò mai a causa dello scoppio della guerra di Corea. Forse, senza l’imprevisto della guerra di Corea, si sarebbero potuti aprire degli scenari imprevedibili, anche perché, nel ’48, Tito aveva rotto definitivamente con l’Unione Sovietica e, quindi, non aveva più le spalle coperte da un alleato geopoliticamente temibile».

Un’impresa di grande valore simbolico

Un’impresa, quella di De Gasperi e dei suoi marinai, dal grande valore simbolico. «Pur non avendo nessuna veste diplomatica ufficiale, quella di De Gasperi e sodali fu una vera e propria missione dal forte messaggio diplomatico – afferma Quintana –, ma, soprattutto, innervata da un ammirevole idealismo e da un profondo sentimento patrio. Hanno investito parte dei loro averi, affrontando il mare, senza sapere se sarebbero tornati o meno: considero tutto ciò come l’ultimo atto, eroico e disinteressato, che chiude il risorgimento italiano e di cui gli italiani dovrebbero fare memoria».

Dello stesso parere Cammarota: «Anche se l’incontro con diverse autorità del Sudamerica non portò un aiuto concreto alla causa degli esuli istriani e nonostante il tabù delle foibe venga sdoganato solo nel 2004, l’impresa di mio zio rimane nella Storia. Sostenendo la causa dell’Istria, di fatto, mio zio e i suoi amici si schierarono dalla parte di una minoranza, mettendo in gioco loro stessi e rischiando la vita. Se, durante il viaggio, fossero finiti fuori rotta vicino alle coste dalmate, sarebbero sicuramente stati fucilati dai soldati jugoslavi. In Italia, probabilmente avrebbero potuto essere tacciati di fascismo per il solo fatto di denunciare, con la loro azione, i crimini contro i civili, operati, in quegli anni, dal regime titino. Ma partirono. E lo fecero per un’ideale. Il loro non fu unicamente un atto di eroismo, ma una testimonianza di patriottismo e impegno civile».