La meditazione sulla gioia di Pippo Delbono, una carezza che lascia il segno

Quello che resta nel cuore, alla fine, è il colore dei fiori, insieme con un senso invincibile – non banale – di bellezza. “La gioia” di Pippo Delbono, in scena al Teatro Donizetti il 24 e 25 marzo nell’ambito degli Altri Percorsi, accarezza l’anima degli spettatori. 

Ma è una carezza ruvida, non troppo gentile. Lascia il segno, non vola via leggera come vento quando le luci si spengono. Offre spazio, silenzio, buio alla meditazione. Non è facile andare via, alla fine, gli spettatori restano lì per un po’, dopo gli applausi, come se ci fosse ancora qualcosa da aspettare.

“È un cammino verso la gioia” come annuncia Pippo Delbono all’inizio, spinge a guardarsi dentro e a tornare fuori (un tuffo vero, con lo spavento di una grande altezza) con la consapevolezza di una dimensione umana profonda, che annulla le distanze, rende vane le barriere fisiche e culturali, in nome di una fratellanza vera, semplice, occhi negli occhi e mani nelle mani.

Storie di fragilità nel cerchio magico del teatro

Compone un’immagine di mondo che alla fine appare insolitamente riconciliata, nonostante la presenza del dolore, della fragilità, della solitudine, della tristezza, della morte. 

Ci sono tante storie nello spettacolo, le persone che Delbono ha incontrato, parabole esistenziali che superano gli spigoli particolari per entrare nel suo cerchio magico universale del racconto.

Ci sono piccoli gesti, foglie che volano e barchette di carta. E la luce, che finisce per illuminare dall’interno una visione alternativa del mondo. C’è una carica inesauribile di emozione, che a volte non si può e non si deve controllare, e che si esprime nella danza, nelle canzoni.

Non è qualcosa di cui vergognarsi la debolezza, il corpo che invecchia. Lo stesso Pippo Delbono si muove lentamente, a volte con un pizzico di esitazione. La sua voce arriva con dolcezza – a volte con un po’ di fatica nel respiro -, come strumento potente di evocazione.

L’omaggio di Delbono a Bobò. Fioriture e possibilità di riscatto

C’è sempre Bobò, che Pippo Delbono ha accolto nella sua compagnia portandolo via dal manicomio dove è rimasto per 47 anni. Un uomo sordomuto, che si esprimeva con suoni inarticolati che stranamente alla fine tutti capivano, come una specie di grammelot. È rimasto con Delbono per 22 anni, ed è morto nel 2019, ma lui continua a portarlo con sé e nei suoi spettacoli.

Ognuno porta con sé le sue ferite, ma anche la possibilità di riscatto. “Più lungo è il tunnel più vicina è la luce“. E ancora “ognuno fiorisce nella sua stagione” spiega Pippo del Bono, come se parafrasasse le parole di Qoelet secondo le quali “c’è un tempo per ogni cosa”, basta darsi questo tempo, coglierlo, sapere che c’è bellezza in ogni uomo, che ognuno ne possiede e può (deve) farla fiorire.

Seduti intorno al focolare di Delbono, gli spettatori assistono e diventano parte della magia del teatro, se ne appropriano come se fosse commestibile, come se potesse entrare nella carne e attraversarla per restare viva, mobile, nutrirla come sangue nuovo. E trovano alla fine (forse) lo stimolo a cercare, nel cammino, il proprio senso originale della gioia.