Aprire il cuore di un “ragazzo difficile”. Torey Hayden: “La sfida più bella”

Sono tanti i bambini e i ragazzi con cui Torey Hayden ha avuto a che fare nella sua lunga carriera di insegnante e di psicologa infantile, prima negli Stati Uniti e poi nel Galles. Bambini e adolescenti considerati “difficili”, “problematici” con comportamenti ostili e ribelli, che sembrano rifiutare il mondo che li circonda. Bambini con problemi di salute mentale, bambini in affido che necessitano di sedute di terapia cognitivo comportamentale. Molti di loro li ha descritti nei suoi libri, che hanno aperto la porta su una realtà complicata ma che si può e si deve affrontare. 

Nel nuovo romanzo “La ragazza invisibile” (Corbaccio 2022, titolo originale The invisible Girl. The True Story of an Unheard Voice, traduzione di Lidia Corradini Caspani, pp. 312, 17,90 euro) Torey L. Hayden, psicologa infantile, scrittrice e docente universitaria statunitense, volge il suo sguardo su un’adolescente “sola, allo sbando, con un disperato bisogno di attenzione sincera e mirata”. All’insegnante Torey – la storia narrata è vera – il compito di sciogliere i nodi di una giovane esistenza già disastrata grazie alla insensatezza degli adulti.

Abbiamo intervistato Torey L. Hayden, la quale vive da molti anni in Scozia, vicino a Edimburgo, i cui libri sono tradotti in molte lingue e hanno venduto 25 milioni di copie in tutto il mondo. 

  • Per quale motivo Eloise Jones viene considerata una “ragazza invisibile”? 

«Il motivo era che Eloise era all’interno di questo sistema di affidi, ecc… , era spostata da un posto all’altro e nessuno veramente la notava. Nessuno si preoccupava di capire veramente chi fosse, quale fosse la sua situazione. Era un po’ come una persona senza volto a cui nessuno badava veramente». 

  • Bambini e adolescenti con problemi di comportamento sono semplicemente bambini difficili? 

«Dipende tutto dal background, a cosa sia accaduto a questi bambini/adolescenti. L’adolescenza è un periodo difficile per tutti, è il momento in cui cerchi di separarti dai genitori e cerchi di definire la tua identità. Se a tutto questo ci aggiungi la pressione ulteriore legata a un trauma o a un abuso, in particolare se il ragazzo/a non ha intorno a sé un sistema di supporto, di una rete di sicurezza o degli adulti che si occupino di lui, la miscela diventa abbastanza esplosiva. Qualsiasi ragazzo difficile, che sta all’interno di una famiglia anche se litigiosa, sa che nonostante tutto, mamma e papà ci sono. Sono lì, presenti. Dobbiamo ricordare che apparentemente i ragazzi difficili danno l’impressione di essere adulti e quindi non avendo bisogno di niente e di nessuno riescono a cavarsela da soli. Invece non è così. Spesso, anche fino ai vent’anni e oltre, hanno bisogno di genitori molto presenti accanto a loro. Hanno bisogno di poter parlare, hanno bisogno della guida dei genitori, hanno bisogno di questa rete di sicurezza di cui parlavo prima».

  • Come si può tentare di restituire fiducia negli altri a un’adolescente che non crede più negli adulti? 

«È molto complicato e non esiste la ricetta magica. Dipende tutto da quante volte il ragazzo/a è stato/a deluso/a, se ha mai avuto un sistema di supporto e se era riuscito a sviluppare un forte legame e un senso di attaccamento, che è poi quello che ti consente di sviluppare un senso di fiducia. Se non ci sono queste cose, ovviamente tutto diventa complicato. Mi viene da dire che l’unica cosa da fare da parte di un adulto sia quella di ascoltare un adolescente, essere non solo presenti ma sinceramente interessati a quello che l’adolescente ha da raccontare. Far trasparire la propria attenzione ed essere pazienti, perché occorre tempo. Un concetto antiquato forse, l’esserci per gli altri, ma per me sempre attuale e risolutivo. Con alcuni ragazzi funziona, ma per altri, purtroppo no, semplicemente perché c’è stato troppo danno e questi adolescenti sono stati troppo esposti alle delusioni». 

  • I bambini con bisogni speciali dei quali si è occupata per lo più provenivano da contesti disagiati come Sheila, la protagonista  del bestseller “Una bambina” (1980)? 

«Sì, perché ho lavorato soprattutto con bambini che provenivano da contesti di grandi privazioni. Ora Sheila ha cinquantacinque anni e ciò mi fa capire quanto tempo sia passato da allora!».

  • La pandemia ha complicato ancora di più la vita di questi bambini problematici?

«Assolutamente sì, la pandemia ha peggiorato tutto. Il primo problema è che molti di questi bambini sono rimasti confinati a casa, in un contesto familiare di abusi a cui era impossibile sfuggire. Sono state pubblicate le cifre sugli abusi domestici compiuti dagli uomini sulle donne avvenuti nel Regno Unito durante la pandemia. I numeri sono schizzati durante il lockdown. Non mi sorprenderebbe se ci fossero numeri simili anche per quanto riguarda gli abusi legati ai minori. Questi bambini poi durante questo lungo periodo non hanno avuto la possibilità di incontrare adulti “normali” come i lori insegnanti, per esempio. Adulti che fossero più funzionali e che proiettassero un modo di relazionarsi più sano. Anche le abilità cognitive dei bambini sono state messe enormemente alla prova, quindi sono state limitate, proprio perché non erano esposti a quegli stimoli che servono per poter crescere». 

  • Nel nostro Paese, da quando ha avuto inizio la pandemia da Covid-19, ci sono stati molti “effetti collaterali”, uno di questi è stato l’aumento dell’aggressività nei giovani e un acuirsi dei disturbi psicosomatici. Quali sono i campanelli d’allarme che i genitori non devono sottovalutare? 

«Queste sono reazioni normali a quella che è una situazione totalmente atipica. Questa è la prima pandemia che abbiamo mai visto, non dimentichiamo la natura globale di questa pandemia. Il peggio è passato ma resta l’ansia: possiamo avvicinarci alle altre persone o no? Dobbiamo ancora indossare la mascherina? Per tanti bambini questa situazione ha rappresentato gran parte della loro vita: bimbi di due o tre anni non si ricordano di aver visto persone senza mascherine. Occorre rassicurare bambini e ragazzi, dir loro che le cose torneranno normali, che questa è una situazione passeggera e che non è affatto la nuova normalità. Cento anni fa è accaduta la stessa cosa con l’ultima pandemia di influenza detta “spagnola”, anche allora passato tutto, la vita si normalizzò. Anche ora, abbiamo tutti fiducia nel fatto che torneremo alla vita di prima».